martedì 28 aprile 2009

pioggia in controluce

Passi per la strada, sotto l'acqua, senza nemmeno tentare riparo che non serve a nulla. Tanto vale buttarcisi sotto.
Alternanza di sanpietrini e asfalto, vicoli stretti e strade ad alto scorrimento con gli alberi intorno, tra arancioni sintetici attraverso le resine dei lampioni e i verdi nuovi falsati da buio e luci umane.
Uno sguardo al cielo che si getta su di noi. Gli archi e le porte racchiudono lo sguardo, e come lamine sottili che tagliano l'aria le gocce di pioggia si fanno vedere solo in controluce.
La pelle le aveva già assorbite.

Ridimensionarsi lentamente, poco alla volta, togliendo frammento dopo frammento, uno per ogni no ricevuto. E piano piano, come fossi gesso, mi sbriciolo sulla punta delle dita non appena provo a sfiorarmi. Una nuvola di polvere bianca, un respiro di giornata fredda, non resta altro.
Le parole diventano fili d'erba scelti e strappati uno ad uno, chiedendo scusa al prato; o forse assomigliano alle gocce di una pioggia acida, che corrode subdolamente senza quasi farne accorgere.
Stridono, senza cura; sono come metalli che si graffiano a vicenda.

Stanca di parole stanche che non sanno che fare di sè, andando avanti del proprio riflesso.

Faccio finta di nulla e sbatto contro porte a vetri ben segnalate.
Sapere come le cose andranno a finire non le rende più innocue.

Continuo a farmi male, rinunciando ogni volta a schegge di me. Le prime che getto sono proprio le più luminose, quelle che sanno rifrarre i colori d'intorno.
Restano tagli, ferite di superficie che tornano a ricordare che i passati non se ne vanno, possono solo ampliarsi.
I segni sono impressi addosso, latenti anche quando ci scordiamo di loro, o peggio facciamo finta che non esistano più.
I marchi non si fanno più a fuoco, direttamente col calore del sangue.

Mi snaturo accettando compromessi che non mi appartengono.
Disimparo ad affezionarmi per non subire i silenzi.

E il labirinto non ha uscita se non sei tu a volerla, a cercarla, a crearla...

sabato 18 aprile 2009

urban tales



Come un carillon suonato leggero, tocchi acuti che si sentono appena, quasi persi e assorbiti dall'aria.
Attraversando tanti luoghi, davvero favole urbane a rincorrersi e succedersi, per voci amiche e braccia strette intorno al corpo.
Sentirsi accolti, di continuo...

Etrangère ou chez moi dans tous les lieux.

Straniera o presso di me ovunque mi trovi... Non c'è un luogo da chiamare casa, che non so se voglia dire che non ce n'è nessuno oppure che ce ne sono molti. Ognuno con una sfaccettatura di me, una delle mie varie vite che mi aspetta lì, sospesa per continuare quando tornerò.

E' stata Paris, con il mio fiorellino personale che mi guarda e sorride, mentre insieme seminiamo continuamente gocce di pioggia a nutrirci.
P., così, senza altre definizioni, che è parte di me e lo scopro quando le sue vie si mostrano così familiari da non dover prestare loro attenzione.
Dall'ultimo piano del Beaubourg un colpo d'occhio ad abbracciarla tutta, fino a MontMartre sulla sua collinetta, in quel bianco strano che con la luce della sera si sporca di grigio, come stesse morendo un poco prima di accendersi per la notte.

Roma, ancora, ogni volta di nuovo e nuova, con altri volti da mostrare, altre voci.
Aspettare che le strade lentamente diventino familiari, conquistate metro dopo metro nei vari momenti del giorno.

Col mio fuoco fatuo sospeso sul tavolo, luce dai colori caldi che non emana calore.

Il mio corpo intanto lacrima sul marmo e senza scalfirlo lascia tracce di sé.
Di giorno lo chiamano grano, devi socchiudere le ciglia e aspettare le ombre per notare un bagliore.

Chiudi gli occhi...