Passi per la strada, sotto l'acqua, senza nemmeno tentare riparo che non serve a nulla. Tanto vale buttarcisi sotto.
Alternanza di sanpietrini e asfalto, vicoli stretti e strade ad alto scorrimento con gli alberi intorno, tra arancioni sintetici attraverso le resine dei lampioni e i verdi nuovi falsati da buio e luci umane.
Uno sguardo al cielo che si getta su di noi. Gli archi e le porte racchiudono lo sguardo, e come lamine sottili che tagliano l'aria le gocce di pioggia si fanno vedere solo in controluce.
La pelle le aveva già assorbite.
Le parole diventano fili d'erba scelti e strappati uno ad uno, chiedendo scusa al prato; o forse assomigliano alle gocce di una pioggia acida, che corrode subdolamente senza quasi farne accorgere.
Stridono, senza cura; sono come metalli che si graffiano a vicenda.
Stanca di parole stanche che non sanno che fare di sè, andando avanti del proprio riflesso.
Sapere come le cose andranno a finire non le rende più innocue.
Restano tagli, ferite di superficie che tornano a ricordare che i passati non se ne vanno, possono solo ampliarsi.
I segni sono impressi addosso, latenti anche quando ci scordiamo di loro, o peggio facciamo finta che non esistano più.
I marchi non si fanno più a fuoco, direttamente col calore del sangue.
Disimparo ad affezionarmi per non subire i silenzi.