giovedì 25 dicembre 2008

jeux interdits

Parole dall'effetto devastante. Non arrivo nemmeno alla fine e gli occhi già bruciano, rossi, zuppi, come se di colpo si fossero lasciati andare, qualcosa nascosto appena sotto la superficie a esplodere di colpo. Crollo, così, senza motivo.
E la solidità ritrovata, i sorrisi, il Sole, diventano miraggi con cui gioco con me, restando in equilibrio a bordo del prato come fosse acqua in cui affondare. Non c'è abbastanza freddo perchè si formi ghiaccio.
Intorno ho le mie margherite che mi fanno sorridere e inclinare il capo al sole. Ostento sorrisi che in fondo sento anche, colori d'occhi e abbracci che scaldano e danno solidità di fondo su cui reggersi. Ma alla fine sono una gru in equilibrio su una gamba sola, e alla prima scossa se non volo in tempo cado a terra.

Quanto mi sento la pelle nuda...

La nebbia, il profumo di legna bruciata, respiri lievissimi a fianco che ti fanno crollare in sonni profondi, fino ai sorrisi del buongiorno l'indomani...
Ma le carezze non si possono chiedere, sono troppo intime.
Possiamo scontrarci, venirci addosso, evitarci, correre, danzare... Ma carezzarci no.
E' la bellezza della distrazione di gesti non pensati, mani che sfiorano la pelle in tocchi senza logica. Arrendevolezza sotto la punta delle dita per gesti di cura che non vogliono nulla in cambio se non un corpo che si distenda in un sorriso. E' lasciarsi andare, a prestare e ricevere cura.
Niente carezze... Non ci possiamo permettere di lasciarci andare così tanto, consegnarci all'altro perchè si prenda cura di noi.

Ecco, forse è questo... Ho reimparato a camminare, forse a narrare, e a volte credo di sapere anche danzare.
Ma mi mancano quelle carezze che ti dicono di non pensare, non preoccuparti, che qualcuno è lì a guardarti e soffierà sui tuoi pensieri grigi quando li vedrà velarti gli occhi.

Eppure non mi capisco lo stesso, non capisco perchè crollo di colpo, per un nonnulla. Non possono essere solo carezze che non sono, notti vuote e buongiorni non dati.

Senza accorgermene continuo a costruire castelli intagliati nella carta. Mi convinco che non ci credo e finisco per bagnarli d'acqua. E ancora una volta sono qui a pensare e credere in un gioco inesistente, violentandomi per convincere le dita a stracciare la carta.

lunedì 22 dicembre 2008

'til the end of the world

E' appena finito il primo giorno d'inverno, l'autunno è andato mentre io resto a sperare che i danni che ha portato con sè si esauriscano con lui e non lascino scie sulla sabbia fredda.
L'inverno è intimo nel suo freddo, ferma il tempo e sospende il sole, incastrato vivo tra i rami degli alberi che ricamano il cielo di trine scure.

Non riesco a stare in quello che arriva, vivendo spiazzata in tempi che non esistono.
Non sono brava a salutare, ho sempre cercato di evitare gli addii. E mentre ancora sono lì già mi vedo altrove e allora mi stringo un poco in più, la mia presa è un po' più stretta.
Inizio ad allontanarmi prima che succeda davvero, a piccole dosi...

Mischio luoghi per poche ore, le mie diverse vite si guardano negli occhi e scoprono le loro voci.
La pianura al tramonto è un unico cielo, trafitto dai rami spogli zuppi di nebbia, cielo fino alla fine del mondo.

lunedì 15 dicembre 2008

prestigiatori dal cappello bucato

Era così anche in Francia...

Talvolta odiavo Parigi, quando la sentivo parlarmi come un'amante gelosa che ti trattiene ad ogni costo, sussurrandoti dolce.
Non volevo parlare francese, proprio non volevo. Nè parlarlo nè impararlo, e sono andata avanti un anno a improvvisare parole, inventare frasi che d'italiano lasciavano trasparire ogni impronta.
E' che non volevo restare lì e quello era un modo come un altro per negare la cosa, come un bambino che si rifiuta di fare una cosa per ripicca. Non ti vuole seguire, proprio no! Perchè non vuoi capire che vuole restare qui, a continuare a giocare?! Ma tu l'hai costretto a venire, e adesso allora non puoi dire nulla se sta zitto. E' il suo modo di dirti che lui qui non ci vuole stare.
Ecco.. io ho fatto così per un anno, come se in quell'inganno da prestigiatore col cilindro bucato potessi fingere di accorciare il tempo, e non essere lì.
Non ha senso giocare coi se e coi ma, tuttavia.... Ci si perde in storie non vissute, in strade che hai visto e deciso di non prendere. E a volte incroci strade che sapevi di star facendo in modo di perdere...

Finisce comunque che ti scontri col mondo. Con quello che alla fine è venuto a essere, al di là di tutti i pensieri partoriti, di tutti i viaggi fatti o meno.
Non scrivo per restare nei miei giochi. Sono pensieri che da soli non se ne vanno e io non voglio incoraggiarli a farlo. Non scrivo per demandare, per cullarmi ancora un po'. Sapendo che non vedo il mondo e fuggo via.

In macchina, la radio accesa, raccontano canzoni e non scopro neanche che potesse essere, è già alla fine. Note, voce.. tutto resta incognito. Mi arriva solo l'ultima strofa, in italiano parlato.
All'incirca così:

non me ne faccio nulla delle mie paure
una volta che tu te ne sarai andato


e sorrido di un sorriso triste..


(quanto perdiamo per paura...)

venerdì 12 dicembre 2008

zucchero bruciato

Credo fosse il tuo modo per augurarmi la buona notte, per cullarmi...



Non eravamo mai nel silenzio, la musica ci accompagnava in tutto, ma il tuo mondo era a spigoli e cocci di vetro, nei tuoi suoni acidi e duri io mi tagliavo sempre.
Te lo ricordi quel giorno in spiaggia, a parlar di bombe?
Io e la mia bolla di sapone che mi avvolge, che mi sono sognata intorno per non vedere il mondo così com'è, che quando succede che la sua superficie d'aria si apra o tagli mi fa troppo male. Ho bisogno dei suoi riflessi un po' cangianti per non vedere la durezza di fondo delle cose...
I gridi acidi che suonavano la mattina mi facevano male.
Ma la notte mi cullavi con loro, anche se mi svegliavo e mentre tu continuavi a dormire io non riuscivo più a riaddormentarmi in quelle distorsioni melodiche.
Distorsioni melodiche... ma era la musica o eravamo noi?
Ancora non riesco ad ascoltarli fino in fondo, sono una coperta di lana ruvida che non mi lascia sognare tranquilla. Sono una ninnananna di succhi acerbi e un fondo dolce di zucchero bruciato.
Ma questa non ti è legata, ed è una nuova nenia per quest'inverno.
Te la lascio, per quando passerai...

giovedì 11 dicembre 2008

collezionista

Tengo tutto raccolto in scatole di cartone, di quelle rivestite in carta colorata, con lo spazio per scriverci cosa abbiamo messo dentro un tempo, per poterlo ritrovare una volta che ci saremo dimenticati di averlo avuto tra le mani.
Tengo tutto, non riesco a gettar nulla, collezionando ricordi di ogni tempo e luogo, oggetti o pensieri sono la stessa cosa.
Forse ho troppa paura che una volta che le avrò dimenticate sarà come non fossero mai esistite, mai successe, e allora le lego a me con corde a cui non voglio rinunciare, legate in modo tale da non potersi sciogliere.
Ma il rovescio mostra il trucco e alla fine dei conti per quanto io possa abbellirle restano catene.
Oblio.
Chi ricorda solo non vive. Non c'è spazio per il nuovo dove risiedono solo ricordi. E legandomi così stretta faccio in modo che niente possa trovare spazio presso di me, come se nulla potesse venire ancora.

Faccio il cambio dei cassetti per la stagione fredda, metto in ordine, metto via ciò che non serve, non appartiene più all'ora, convinta di aver sgombrato lo spazio come i pensieri.
E mi trovo a guardarmi stranita da fuori coi capelli bagnati e il trucco sfatto, con colori e voci adesi addosso che non vogliono andarsene, gli occhi a frugare tra la gente cercando sagome che non esistono. L'acqua piovana mi lava il viso e continuo a sentirmi corpi addosso.

mercoledì 10 dicembre 2008

ghiaccio in polvere

La nebbia la fanno i camini, sbuffando bianco in trasparenza su altro bianco.
Il tempo del respiro plasma le parole, i discorsi e i pensieri se ne vanno in nuvole bianche mangiati dall'aria.
Catene fatte d'aria palpabile, la metafisica non poteva nascere che qui.

Ho dimenticato come si scrive, il lasciarsi fluire indipendentemente da quel che è, lasciando i pensieri senza legacci, neanche fossero falconi da abbellire con un nastro alla zampa.
Ci sono cose che non vanno imbrigliate.

Città che riconosco a tratti, a cui appartengo fino in fondo, entrambe fatte d'aria.
Sono giardini antichi protetti da alti muri, sentieri in cotto ricoperti di ghiaccio lucido, a incidere l'erba rivestita di nebbia come scheletri bianchi, armature di ghiaccio in polvere su steli assiderati.
E' una casa in pietra, e fuori sculture e maschere in ceramica su panchine di cuscini gelati.
Alberi come mani escono da terra con una manciata di terra ancora tra le dita, il palmo curvo e proteso verso l'alto, i rami offerti al cielo. Foglie arancio, squame vive, appese ai vuoti come se qualcuno avesse scelto per loro dove stare, a decorare d'autunno un legno già in letargo. E i vetri vecchi sanno di blu cupo mentre il cielo immobile li schiarisce in oltremare, sfondo per gemme bianche che cullano i rami.
Vie deserte e case antiche in passi di danza sui ciottoli tondi. In fondo alla strada già non esiste più nulla.
Scale di coccio per arrivare a una conca d'erba chiara su cui galleggia acqua impalpabile, mantello di sera appoggiato in bilico per non toccare il suolo. Luci opache e incroci metallici a chiudere salite e sbarrare strade, estati e mondi fa, altre vite.

I noccioli di ciliegia scaldano le mani e profumano di legno, dolceamaro, inverno che cuoce nel forno.
E' tanto che non canto mentre mi addormento, non c'è più musica in quell'istante di semi incoscienza, quell'ultimo momento in cui ci accorgiamo di star sognando e interrompendo il sogno per un attimo rinunciamo ad essere coscienti e crolliamo nel buio.
Sono notti mute queste, i miei sogni non conoscono le note e premono tasti a caso.
Facessero un po' più attenzione...

venerdì 5 dicembre 2008

mattine d'acqua

I miei occhi riescono a sorridere.
Sorridono di coccole d'acqua, di pioggia che viene, e io con lei.
Pioggia, acqua che cade dal cielo incessante, continua. Non è violenta, eppure non si ferma, è fitta e cade sul vetro e sui muri in uno scroscio senza tempo né ritmo, un pizzicore che dà un tono al tempo che scorre, dà voce al giorno.
E intanto io continuo a sorridere con gli occhi, mentre il corpo s'immerge nel calore dell'acqua, nei fumi che salgono e annebbiano l'aria. Occhi chiusi, luci appena accennate, giusto un chiarore diffuso per non accendere il giorno e lasciare le cose confondersi e perdersi una nell'altra. Olii, profumi da spandere, odore di rosa a mischiarsi alla pelle, troppo denso e carnoso lascia scie nell'aria. Restano le note di corpo, gelsomino e arancia, per sensi leggeri.
Tocchi di fisarmonica e sapore di cioccolato in bocca. Spezie, chiodi di garofano a punta amara e cannella acre, mandorle sbucciate a saper di dolce. E torno piccola al mattino, quando la ricotta si mischia al miele, e manca solo la cannella color bruciato per andare al contrario.
Pioggia fitta, acqua che viene, giorno lento. Sotto la tettoia di plastica lo stefanotis assorbe i colpi dell'acqua e vibra piano.

lunedì 1 dicembre 2008

parole d'aria

Il cielo si scurisce d'indaco, con le nuvole grigio cupo a riflettere il tramonto, incendio di temporale. E la tempesta si è sfogata, si allontana e mi lascia in pace. Le nuvole cupe non fanno più parte dei miei giorni.
Ci sono i campi dall'erba ghiacciata, steli bianchi e rigidi che riflettono il cielo. I salici hanno ancora le foglie, e l'acqua è circondata da rovi e piume color polvere. I pioppi sono saldi a terra, coi tronchi robusti senza foglie che entrano con forza nell'aria.
Le betulle hanno serbato le foglie solo sui rami più alti, da un lato bianche come la scorza del tronco, argento sull'altro.
Foglietti bianchi appesi in aria, pensieri e parole disperse.
Brillano, lì, sulla punta dell'albero. Come desideri in dono al cielo.

venerdì 21 novembre 2008

scorze vuote e ladre d'occhi

Vorrei spogliarmi, togliermi la pelle come un vestito, appenderla a fianco al letto come scorza vuota e al mattino non trovarla più. Pelle lasciata a seccare all'aria, finchè non diventerà talmente fragile da sbriciolarsi al primo tocco. Forse allora potrò cercarmene un'altra.
Cambiar pelle, trovarmi domattina a guardare la mia vecchia buccia ormai inutile rimasta in uno sguardo, forse una punta di nostalgia, ma non più che quella.
La vista è morta, è solo il tatto che rende vivi.
Contemplo e muoio allo stesso tempo, senza sapere entrare nel mondo.
Colombe, avvicinatevi e rubatemi gli occhi, a me non servono, è bene che impari altri modi di toccare le cose. Streghe, serbateli in mezzo al mucchio, nel fondo della caverna. Magari un giorno tornerò da voi, per pregarvi di ridarmeli. Allora, solo allora però, esaudite il mio desiderio. Voi in fondo non ve ne fate nulla, e io la strada per arrivare a voi sono riuscita a trovarla anche senza di loro. Potrete ridarmeli allora.

Potessi davvero togliermela stanotte questa buccia usata, e lasciarla appesa vuota all'aria. Non mi serve la pelle per dormire, e i sogni mi attraversano comunque.

giovedì 20 novembre 2008

filo da imbastire

Vertigine al contrario, che non so guardare in alto,
ho perso il tempo del mio respiro.
Scivolo tra giorni irrimediabilmente uguali e bianchi,
tendendo teli e cucendo cuscini per non imbastire la mia storia.
Resto chiusa dentro, nella mia non trama tracciata in fili di cotone senza forza.
E' un abbozzo, solo un'idea, fibre fragili senza un perchè.
Schiacciata dal mio stesso peso intreccio nonsense,
mi rigiro e guardo al buio, senza rumori.
Mi lego sospesa sopra di me, guardandomi dall'alto.
E smetto di sentire.

lunedì 17 novembre 2008

di sorrisi e spilli

Sfocata, ignoro pensieri e parole che non voglio dispiegare, li guardo da fuori, solo la superficie. Non voglio sapere cosa ci sia dietro, o dentro.
Vuota, secca, ogni goccia che potevo trattenere è scivolata via. Rosa di Jericho senz'acqua, nè piovana nè di nebbia, non ho più fiori da far sbocciare.
Arida di terra d'Africa si rompono crepe, la pelle si tende e taglia, si lacera di nuovo, come ogni volta che non so prendermi cura di me.
Storie che porto solcate sulla pelle, incise a vivo, da dover raccontare ogni volta da capo. Gioco perverso che il mio corpo porta avanti, rompendosi ogni volta che si sente lacero.
Ci sono passati di cui non ci si può liberare.
Ma si può fare di meglio. Ce li si può incidere addosso.


bambola voodoo,
con gli spilli in una mano e un sorriso nell'altra.
scegli tu cosa prendere.

giovedì 13 novembre 2008

bianco sgualcito

Questa città è senz'aria.
Non è che sia soffocante, semplicemente non ce n'è, è vuota, gli spazi non sono riempiti da nulla e anche il tempo è come sospeso. C'è un unico colore che si spande tra le cose, un vuoto che prende consistenza, grigio sporco, chiaro, strati di bianco sgualcito che si riversano per terra.
E' come una boccia di vetro, di quelle da capovolgere per far nevicare. Solo che si sono dimenticati i pezzettini bianchi e rimaniamo noi in apnea, fingendo di nuotare con costumi colorati.
Ho inghiottito troppa acqua, non ricordo più come si fa a parlare.
Parole atrofizzate in gola, ho dimenticato tutto, e anche le storie sono finite, non c'è più da raccontare.
Non c'è nulla da cui partire, e forse anch'io sono diventata il cielo di questa città, distesa senza segni fino alla fine del mondo, immoto, senza pensieri. Cielo che a volte si condensa e cade a terra, raso al suolo in un respiro bianco opaco, spuma d'acqua sospesa sul verde dell'erba, mare calmo che oscilla lento tra un bastione e l'altro, scogliere fatte di mattoni rossi.
Divento nebbia, ogni giorno un poco in più, nascondendo il mondo senza crearne un altro che ne prenda il posto. Soffi d'aria, sbuffi che si disperdono senza peso nè colore, dissolti nel tempo di un respiro.
Dimentico. E divento nebbia.
Mi giro intorno a braccia aperte ed aria fredda. Il mondo finisce qui, nel cerchio tracciato dalle dita.

mercoledì 5 novembre 2008

a testa in giù

sono il folle appeso di sbieco al filo
guardando il mondo al contrario
senza saper raddrizzare gli occhi
per rimettere a posto le nuvole

martedì 4 novembre 2008

trame e orditi

è un arazzo strano quello che intrecciamo.
mi trattengo, sto in silenzio
le mie parole da ricamare al telo
sparpagliate sul tavolo
come perline appena comprate.
ma non c'è più il telaio
e i fili cadono e si annodano
con la spola incerta tra le dita
l'ordito ucciso a terra, nessuno spazio per passare.
le mie parole cadono tra i tuoi silenzi
senza toccarti.

giovedì 30 ottobre 2008

cieli verdi

temo, tremo
non lascio segni

senso d'instabilità continuo
che tutto oscilla e resta in ballo senza posarsi mai
eterna giravolta che guarda pericolosamente avvicinarsi il suolo

ho le mani umide, rischio di sciogliere tutto
anche quelle poche tracce rimaste

non sentirai la mia voce
resterà un'unica frequenza bassa e rigida tesa su se stessa
respinta come davanti ad uno specchio
gettandosi contro di sè per frantumare il vetro

vorrei essere una figura nei cieli verdi di Chagall
i capelli sospesi in aria a far da scia

domenica 26 ottobre 2008

le bolle di sapone sono solo vetro un po' più fragile

incrinato, come si sentissero i cocci di vetro
scricchiolare tra i silenzi

illusionista di parole, non sono nient'altro

cerco abbracci, per sentirmi accolta contro corpi
a dirmi va tutto bene, chetarmi con parole lente e a bassa voce
così che io resti lontana da me, non riesca più a ferirmi

sabato 25 ottobre 2008

dormi dolcezza dormi

Una ninna nanna, nella speranza che possa aiutare a fare sogni più belli della realtà.

Dormi dolcezza dormi
Se vuoi vedere il mondo
Lo troverai nel sogno
Io te lo canterò
Ma se nel sogno capita
qualcosa che spaventa
Io sarò molto attenta
E ti risveglierò

C'è chi si è addormentato
Ed ha visto la radura
Sfrecciando come un passero
Che vola in primavera
C'è chi si è addormentato
E si è risvegliato grande
Era passato un attimo
Sotto le vecchie piante

Dormi dolcezza dormi
Ch'è tempo guadagnato
Quello che avrai perduto
Te lo racconterò
E se nel sogno vedi
Qualcosa che ti piace
Abbasserò la voce
Non ti risveglierò

C'è chi si è addormentato
E ha visto la pianura
Un usignolo e un passero
Col sole e con la luna
C'è chi si è addormentato
E come in pieno giorno
Ha visto per un attimo
Com'era bello il mondo

Dormi dolcezza dormi
Ch'è tempo guadagnato
Quello che avrai perduto
Te lo racconterò
E se nel sogno capita
Qualcosa che spaventa
Io sarò molto attenta
E ti risveglierò

[Calicanto]

lunedì 20 ottobre 2008

tra le palpebre

-Hai gli occhi chiusi.
Restò in silenzio. Il voltò si mosse appena, impercettibilmente.
-Perchè stai con gli occhi chiusi? Dormi?

Non sogno, non sto dormendo, so bene quali sono le mie finzioni. So le bugie che mi sono raccontata nel buio degli occhi, i miei pensieri inventati per rivestire le giornate di macchie colorate.
So aprire gli occhi, so riconoscere quando li ho chiusi. Sono bugie senza fine, per resistere all'aria che viene, non aprirli. E la luce è troppo forte, improvvisa, e allora resto immobile in mezzo alla strada, mi accuccio e chiudo gli occhi, sperando di evitare lo schianto.
Ho fatto tutto da sola. Ho costruito io i miei castelli di sabbia e poi ho fatto scorrere l'acqua salata nei fossati, a lisciare le pareti tonde delle torri fatte col secchiello. Ho camminato tra le mura, affondando nella sabbia ruvida ogni volta che arrivava l'acqua. E alla fine ho camminato sopra tutto, l'ho distrutto. Senza grazia, senza motivo, senza senso.
Gettarsi sabbia addosso, sopra, a seppellirsi un poco in più ogni giorno che passa per uccidere i pensieri belli non appena si presentano. Dico loro che non sono importanti, e così sono sicura che non sapranno tornare indietro, mi lasceranno in pace.
Mille tagli, imparando ad incidere la pelle di sbieco, di modo da far passare l'aria come taglio di carta fredda.
S'impara, s'impara tutto. Io sto perfezionando le maniere di ferire, sono diventata brava.
Mi canto da sola nenie tristi, cantilene per cullare i pensieri, ninnenanne per farmi dormire, chiudere gli occhi e chetare le voci.

-Dormi? Hai gli occhi chiusi.
-No, non dormo. Guardo le palpebre, cerco di colorare il mondo.

Per favore, fammi stare così ancora un poco...

sabato 18 ottobre 2008

i cocci di vetro riflettono il sole

Vento furioso, a trascinare le nuvole in colpi di spazzola, violenti a far male al cielo.
E sono cascate di foglie come goccie di pioggia che vengono giù, vorticano, crollano senza pudore. Scaglie di vetro dai colori tenui, trasparenti contro il sole pulsano a terra, di nuovo in tinte vive.

Sera, cielo terso d'inverno, col suolo segnato dai lampioni accesi a scivolare in una serpentina che guizza in curve morbide, lungo il fiume, in linee troppo lunghe per non potersi piegare. Azzurro velato d'acquerello a coprire le cose, cielo che si tinge di grigio a sporcare leggero i colori, lilla e poi giallo scuro, fino all'orizzonte pulito e liscio, arancio vivo e azzurro cupo.


A volte ci si avvelena a tempi lenti, senza accorgersene.
Entra in circolo, e poi credi di non meritarti niente di più.
E gli unici bagliori di luce sono quelli dei cocci di vetro calpestati a terra.

Mescolarsi alla polvere per convincersi di non valere nulla più.
Lettere immaginarie di cui ogni riga è una nuova stesura.
E alla fine le getterò tutte comunque.

lunedì 13 ottobre 2008

sotto il limite dell'eco

Scusa, non posso parlare più forte.
Non so se riuscirai a sentirmi, me che ti parlo.
Ma riuscirai mai a sentirmi?

Ti prego, accosta l'orecchio alla mia bocca, per quanto tu possa essere lontano, ancora adesso o sempre. Altrimenti non posso farmi capire da te. E, anche se ti degnerai di esaudire la mia preghiera, resteranno tanti silenzi che dovrai riempire da solo. Ho bisogno della tua voce, quando la mia viene meno.

Mi sentite, membra del mio corpo sparso? Sentite le mie impercettibili parole, ora o fuori del tempo? Per caso cerchi me, oh mio altro io? Cerchi il tuo ricordo che è presso di me? Forse che come stelle ci avviciniamo l'uno all'altro attraverso spazi infiniti, passo dopo passo, immagine dopo immagine?
E arriveremo mai a incontrarci, un giorno o fuori del tempo?
E che cosa saremo allora? O non saremo più? Ci annulleremo a vicenda come il sì e il no?
Ma di una cosa puoi essere certo: io avrò serbato tutto con cura.

[M. Ende]

domenica 12 ottobre 2008

a colori spenti

chiudo gli occhi e comprimo il petto
mi stringo e accoccolo su di me a trattenere calore

centellinare i ricordi per non sbiadirli
conservati sotto chiave perché la luce non li consumi e porti via

sabato 11 ottobre 2008

albero grigio

Mi sveglio e spengo di continuo, per riportare i pensieri all'incoscienza, per non lasciarmi portar via da una tristezza di fondo che cerca di pungere acuta ma che non posso ascoltare. E allora smetto di sentire.
Poche ore di sonno, mi sveglio stranita, fuori dal mondo. Per una notte vorrei sognare a colori, senza che le tinte cupe che mi tengono compagnia nel giorno prendano corpo e voce nei sogni distorti che compongo la notte.
Al mattino sono passi uno in fila all'altro per strade senza persone, solo le foglie a nascondere il cemento e ammorbidire i passi. Cielo azzurro e aria mite, i salici entrano coi rami morbidi nel fiume, le foglie ancora chiare raccolgono la corrente che passa, incidono onde.

Castello dall'opulenza di mattoni poggiati gravi uno sull'altro, troppo pesanti per poter suscitare bellezza, edificio schiacciato a terra da se stesso.
Ma poi c'è il parco.
Prati e prati e prati, dalle curve che salgono e scendono nell'erba morbida, le dita si tuffano tra gli steli verde liscio sentendo l'acqua fresca trattenuta sulla superficie della terra, colore vivo che sa di umido, un verde che riflette e mischia cielo terso e foglie gialle.
Sentieri in terra battuta, marroni, rossi e gialli a ricoprire il suolo, alberi in incendi a costeggiare. E ovunque, in macchie irregolari, senza forme, colpi di viola e bacche bianche, arbusti rosa dai frutti uguali.

Io, estraniata da me e dal mondo, i pensieri che non esistono più, sono solo la malinconia che respira lieve.
Cammino, parlo nell'aria, non parlo più, non voglio parlare.
Il bosco mi costringe a non sprofondare in me, mi prende gli occhi e mi trascina via tra le sue forme, i suoi colori e odori. Il sole attraversa la lana lavorata leggera e tra le maglie rade e fini tocca e scalda la schiena nuda, il corpo intero che sussulta e ringrazia, sorriso pieno.
Terra grigia, umida ancora di notte, giochi di legno e due altalene blu attaccate ad una trave liscia e scura.
Le gambe avanti e indietro cullano i pensieri, cullano me. I capelli vanno sul viso, sugli occhi, in bocca mentre torno indietro. L'aria invade il viso e il volo è verso un albero alto e saldo, dritto contro il sole. Tra le foglie filtra la luce e dietro le betulle dalle foglie argento si agitano all'aria.
Staccata da terra e sospesa in aria, lontana da tutto, c'è solo il bosco e la sua luce, i suoi odori umidi, vivi.
Toccare la terra e accarezzare i tronchi bianchi scorrendo i polpastrelli lungo i segni incisi in semicerchi neri. Alberi grigi dalla corteccia liscia, forme curve a snodarsi da terra, un istinto di tatto per sentirlo fresco nei palmi. Abbracciarlo nell'arco del corpo, sentirlo ruvido contro la pelle per sentirlo respirare, adattare i miei respiri ai suoi, lunghi e lenti.
Nessun rumore, nessun pensiero, né domande né risposte.
Solo, ci ascoltiamo respirare, io e quella corteccia grigia e ruvida, sulla mia guancia.

venerdì 10 ottobre 2008

sconfinare in un non

Sono città confinanti. Come quelle di Calvino, dove il mondo diventa un unico immenso spazio senza più confini, senza più segni a distinguere, a dare un senso. Non ci si accorge quando si passa da uno all'altro. Le frontiere sono state mangiate, i muri erosi, tutto fluttua nell'indistinto fino a scordare cos'era un tempo.

Sconfiniamo uni negli altri, senza nemmeno renderci conto di come e quando questo accada.

Passare al setaccio i pensieri come sabbia da sgranare e alla fine, una volta che i colori del giorno sono filtrati tra i vuoti della rete, i grumi che restano sono sempre gli stessi. Pensieri covati in un silenzio caldo, umido, ventre muto e buio che non fa filtrare luce. Tutto resta fermo e quiescente, stasi immobile che non porta a nulla.

Stato di dormiveglia perenne.
Non pensare e non sentire.
Non.

giovedì 9 ottobre 2008

muschio sulle coperte

Tornando a casa, verso Tiergarten, la metro scorre in superficie e il cielo è tagliato in due, come se le nuvole a un certo punto avessero deciso di finire bruscamente, stanche di quell'intriso di viola e grigio che sovrastava le case, rosa lucente a dar profondità alle masse d'aria. E di colpo si sfilacciano e finiscono senza un perché, lasciando spazio al giallo aranciato che caldo va a spegnersi nei toni cupi della cenere. Così fino alle punte delle case, due cieli in un tramonto solo.

Mi lascio fluttuare a pelo d'acqua, mentre ad ogni onda le orecchie si chiudono e mi ovatto dal mondo, senza passare allo stato di veglia.
Gocce d'acqua a scivolare sulla pelle senza toccarla, smetto di chiedere sorrisi che comunque non verranno.
Non è tempo di abbracci questo.
L'autunno è già avanti, gli alberi stanno finendo di perdere le foglie anche se i marciapiedi sono ancora invasi di scintillii di gialli e rossi.
Guardo in avanti con gli occhi fissi per non sbattere le palpebre, cerco di non pensare ai vuoti e ai no, agli sguardi spenti che hanno costellato il tempo.
Passi insicuri, non c'è equilibrio.
L'edera diventa ogni giorno di un rosso più intenso, gli alberi alternano gialli e arancioni caldi a verdi ancora nuovi e freschi, il muschio cupo e umido ricopre i tronchi grigi.

E le coperte lasciano passare l'aria.

lunedì 6 ottobre 2008

spazi vuoti e mercati gitani

Giro per le strade e non penso, accumulo e metto via, come vecchie cartoline o giornali usati impilati uno sull'altro. Soffermarsi appena e passar oltre per lasciarsi scorrere insieme alla pioggia.

Sono mercatini come spazi gitani, pioggia battente e vestiti bagnati, camicie aderenti alla pelle e capelli bagnati, gocciolanti freddi. Un uomo senza età, persa tra le pieghe della faccia, spinge una ruota di metallo gialla, ferro pesante, forse treno di altri dove e tempi o chissà che.
Ciarpame, cianfrusaglie ovunque, soffitte ribaltate come scatole dal tetto sfondato su banchi improvvisati, scarpe sfondate e giacche appese a stendibiancheria dai tempi migliori, servizi in vetro o plastica non ha importanza, divani zuppi d'acqua e macchine da cucire spugne di pioggia.
Gente che passa il tempo di domeniche da riempire, disfarsi di cose che non ti appartengono più per scambi strani sotto il cielo grigio, e in alto un aquilone verde rompe le nuvole fitte.
Odore di mais bruciato e caffè caldo a portar via, nuvole di vapore nell'aria fredda, terra e polvere bagnata nello spiazzo deserto della semiperiferia, dove i boulevards alberati sono finiti così come le case intonacate da poco. Sono palazzi dalle ferite a cuore aperto, intelaiature di ferro che spuntano dai muri, il cemento che si mostra crudo dove il colore è saltato via, il legno che si sfalda sulle porte e lascia segni scuri come bave di lumaca.
Una ragazza di profilo seduta su una finestra agli ultimi piani, la schiena appoggiata allo stipite, a fianco il nulla.
Città dagli spazi erosi, non luoghi vuoti che si aprono d'improvviso, in cui il tempo ha fatto la sua parte e piante, cespugli e rovi hanno trovato modo di crescere e diventare alberi. Spazi selvatici strappati alle case, rose selvatiche e vuoti che invadono Berlino, lì in attesa di edifici per riempirli mentre progetti stampati a colori accesi su plastica lucida li incorniciano in contrasti troppo finti.
Case crollate di peso, resta l'erba a invadere quel lembo strappato alla città, circondato in verticale da muri alti.

venerdì 3 ottobre 2008

conchiglie mute sulla sabbia

Ritrovo naturalezza nel lasciare tutto quanto per me, senza sapere se avrò poi voglia di cercarne un senso, ricopiare in bella su fogli bianchi, schermi finti in cui giocare con sé per illusioni dolci.

Si muore lentamente, un poco per volta.
E ritrovo la voglia di scrivere ora che sono partita di nuovo, ho altre nuvole nel cielo e colori diversi nelle vie, suoni e profumi che non so riconoscere.

Malinconia a cui cerco di non pensare. Per le parole che non usciranno da me, per il laccio viola che chiude le pagine, un anno racchiuso in un centimetro di spessore, io poco più che questo.
O forse è solo ciò che ne esce quando smetto di raccontare le istantanee raccolte nel viaggio, che tenute solo per me hanno poco senso.
Inutilità di raccogliere storie senza riuscirle a raccontare.

Toni di voce incerti, che non sai quanto puoi sbilanciarti, lasciar andare il tuo vissuto, lasciarti rivivere in altri occhi.
E non essere intesi, e vederli andar via, per imparare a censurarsi di nuovo, capire che non c'era spazio.
Pensieri che non volevo ascoltare, parole che non possono essere dette. Non più, forse mai ancora, per ritornare soli senza mai essere partiti.


..mancano occhi in cui sorridere

e in fondo a tutto continuo a sentirmi sbagliata..

giovedì 2 ottobre 2008

trattenere colori

Rendersi conto di aver ricominciato a pensarmi sola...

Non è gioia ma le tinte non sono nemmeno nei toni del grigio.
Sono solo colori un po' più spenti, quel gioire solo per sé che non riesce mai a vibrare fino in fondo.

E' sopravvivenza. Non ci si possono continuare a conficcare spilli in cuore.
Aver bisogno di un sorriso tenue per non sentirsi inutili, tristemente fuori posto.
Io a colori sbiaditi, che nello slancio avevo messo quanto di più bello potessi regalare.
E sulla pelle resta polvere.

Mi ritrovo e sento sola a guardare la pioggia che suona sul fiume, gli alberi ancora con le chiome piene che feroci si slanciano sull'acqua, gli argini invasi dai salici chiari che si intrecciano sul fondo scuro.
E ritornare poi la sera, senza più pesi addosso, sotto il cielo ormai cupo ma di azzurro e nuvole sfilacciate, le ultime luci a brillare sull'acqua. Fermarsi sul ponte a sorridere al fiume.

Sorrisi solo per me, senza pensare di poterli raccontare, che il silenzio non è un buon amico a cui dire le cose.
Colleziono colori e suoni tra le mie istantanee, per poterle recuperare nelle giornate d'inverno.
Avrò chiome d'oro lungo la metropolitana all'aperto di Berlino, i suoi muri cotto scuro.
Collezionate e non narrate, restano silenziose, quiete immobile.

Non è tristezza, non del tutto.
E' solo capire che devo trattenere i miei colori.
Sperando di non doverlo fare troppo a lungo. Sperando di non dimenticarli nel frattempo.
Forse è per questo che li scrivo...
Non voglio parole di circostanza.
I propri colori raccontati e non accolti perdono luce, invecchiano di colpo.
Meglio il silenzio allora, non capendo se sono stata io a volerlo...

mercoledì 1 ottobre 2008

voli senza logica

Mi controllo in ogni gesto e la tensione è sputata fuori con ogni parola, inutilmente malcelata.
Io come corda pizzicata da ogni goccia che cade dal cielo, suono stridulo di metalli che s'incidono di sbieco.
Le mie parole hanno il gusto dell'argento vecchio, ossidate di scuro non appena toccano l'aria.

Sentenze e intermezzi mentre l'ego si erge sovrano, convinto di potere tutto, di poter decidere di ogni mio destino.
Gabbie dorate in cui il mondo non conta nulla, esercizio di giochi infiniti di parole, perfezionato sempre più per stringere meglio.

Non voler gioire del mondo, e scorrere le strade chiudendo gli occhi, anche se il muro sanguina rubino e le foglie gialle cadono in voli senza logica, luci e colori che rimbalzano in sfarfallii di silenzio felicemente ingenuo. Ignorare gli alberi che danzano e creano un sottobosco all'ombra dei treni sulla sopraelevata di mattoni e ferro, ignorare i muri cotti dal sole, rosso bruciato di stelle a otto punte. Passar veloci, e non guardare le coperte vinaccia scuro gettate sulle panche di legno denso, i divanetti in vimini e cuscini bianchi sulla riva del fiume tra i lampioni gialli specchiati sull'acqua. E le candele circondate dalla carta bianca, a piegarsi e flettersi in rughe improvvisate, linee e tagli tra fiamme e vento.
La metropolitana corre lenta in superficie, rumore basso, un vibrare corporeo che risuona nei pensieri, lentamente calmi, battito del cuore in ferro e pietre

E mi sorprendo a pensare a me, a quel mio incessante farmi male nel cercare di convincermi del mio silenzio triste. Quel dirmi hai visto? non valevi la pena, che credevi?
Come un mantra recito i miei nomi. Ricordo luoghi e visi, traccio nell'aria linee e forme con le mani.
Bianco inerte di cui non so che fare.


e troppo spesso parlo sola...

martedì 30 settembre 2008

vetro rotto pieno d'acqua

Edera come vino rosso, gocce di sangue vivo sui muri chiari spenti dall'ombra.
Distributori di palline colorate e venti centesimi per cioccolatini in carte smaltate, colori sgargianti attraverso un vetro mangiato dal tempo, giochi vecchi e sorrisi pieni.
Ballerine in stringhe di metallo a rincorrersi, forme irregolari a intagliare i palazzi.
Vetro brillante e pioggia sospesa, trattenuta in aria senza lasciarla cadere.

Io, senza peso...
Pensieri annebbiati, non c'è né lucidità acuta né sprofondamento in queste parole.
Si snodano come segmenti senza lasciare traccia oltre a un contorno vuoto tracciato col nero.

Mare mosso e movimenti riassorbiti tra le onde, come non fossero mai stati fatti.
Le mie bottiglie lanciate tra le onde continuano ad affondare,
vetro rotto pieno d'acqua.

Parole senza senso, solo per cercare inutili metafore.
Cedere all'acqua e lasciarsi trasportare via.

lunedì 29 settembre 2008

cera bruciata

voglia di un abbraccio, senza parole.
solo calore dolce a dire ti sento
non ti preoccupare, non mi fai paura, ti tengo stretta.

e il gioco non vale la candela.
io non valgo quelle energie, ne brucio troppe
e in cambio non so nemmeno scaldare, fare luce.

sentirsi soli...

solo è quando non hai qualcuno a cui raccontare...

mercoledì 24 settembre 2008

traversate d'acqua

la stessa luce dei tramonti sul mare

i colli come isole sospese
galleggianti sul pelo dell'aria

magenta fuoco in punta d'orizzonte
e quella cupola slanciata sul filare del grigio
dissolta lei e dissolto il monte

tornando a casa
rivoli di nuvole su fondali rosa

irrealtà pura

lunedì 15 settembre 2008

fiori scarlatti

Andar via, spostarsi, senza in realtà fare alcun passo, e ottenere solo di allontanarsi da chi ti è caro, senza trovare nulla in cambio.
Mi perdo. Briciole di pane per recuperare la strada, ma con l'autunno e i primi freddi vengono beccate via prima che arrivi la notte e poi non resta modo di ricalcare quei passi.

Energia che portiamo con noi, che ce ne rendiamo conto o meno. La mia tiene alla larga, non fa avvicinare.
Rincantucciarsi in un angolo, per non provare, per non rischiare, per non ricevere l'ennesimo no a darti conferma di quello che tu già sai di te.
Eccezioni fatte per pochi, quei pochi che sanno toglierti la polvere dagli occhi e lasciarti sorridere all'aria leggera dei mattini autunnali, a quel sole che non sa scaldare ma porta luce, ed è già molto.
Resto seduta a terra mentre ricopri i tuoi passi. Non briciole ma sassolini bianchi ti indicano la strada, e sotto il primo strato di terra bruna brillano chiari di luce di luna.
Io resto qui, a vederti andare, interrando radici per fiori scarlatti. Sono le piante più velenose ad avere i fiori più belli, e io mi ammanto di colori vividi per ferirti gli occhi.
La mia energia come siero velenoso da cui guardarsi. Non c'è antidoto, non svilupperai resistenza alle mie stille dolci dal fondo amaro.

Circondata d'aria, come fosse una sfera di vetro, nulla entra e nulla esce.
Prima o poi anche gli occhi si stancheranno di guardare fuori. Già i profumi non li ricordo più. Gli unici che che ancora sono impigliati tra i pensieri sono quelli dei gelsomini bianchi nell'aria di notte. E il pane, caldo, appena uscito dai forni, mentre si mischia alla rugiada del primo mattino.
E' solo questione di tempo. Prima o poi se ne andranno anche questi.

Silenzio.

domenica 14 settembre 2008

riposarsi di sè

E per una volta cerco di fare le cose per bene...
Anche col disegno era così, iniziavo dai dettagli, curati nei singoli particolari, nelle sfumature, nei minimi tratti. Ma poi si perdevano nel vuoto intorno e senza uno sfondo in cui immergersi rimanevano simboli, tratti iconici senza senso, terribilmente studiati e freddi.
E allora oggi cerco di far fluire le parole libere, senza cercare di costringerle fin dall'inizio in cornici dorate, sperando che possano prendere vita scordandosi di voler essere belle.
E l'inchiostro slavato stinge i pensieri, come non fossero importanti.

Aria fredda e luce di pioggia finita, odore di terra bagnata che mi riporta a te, una stanza scurita dalle imposte chiuse e dalle nuvole colme, giorno ancora in sospeso mentre ti guardo per non svegliarti, ti sento respirare e ti sfioro per memorizzarti attraverso la pelle.
Fusa contro le piante dei piedi per raccogliere calore durante la notte, senza avvicinarmi per non svegliarti. Contatti minimi, giusto per sentire che sei vicino, aria e buio per consegnare ciascuno ai propri sogni.
Noi ci ritroveremo al mattino.

Non riesco a trovare parole, i pensieri non vogliono seguirmi.
E mi viene da pensare alle istantanee rimaste non dette.
I Cedri del Libano sono rimasti muti, racchiusi tra i mattoni rossi slavati da acqua e sole, quei tronchi e quei rami diventati lucenti pioggia, calore saldo che affonda al suolo, liscio nel poggiarsi alla pelle.
E ci siamo noi bambini che li sfidiamo ad ogni giorno d'estate, per fare pochi centimetri in più cercando appigli sui rami più leggeri. E ora uno scuarcio lo ferisce in tagli amari, una neve troppo pesante di un ventinove febbraio, dolore triste dalla linfa alle vene.
Ma nonostante tutto è vita piena, rami così antichi da aver oltrepassato i cancelli di ferro per tendersi oltre la strada e tagliarla dall'alto da parte a parte. Un bambino biondo ride a cavalcioni mentre una mano adulta dietro alla schiena è in attesa vigile per insegnargli cosa sia l'equilibrio.
E poi i campi selvatici dentro la città, racchiusi dalla cinta muraria, rampicanti e cespugli selvatici che ricoprono le rare case, odore dolce di uva fragola che macchia di scuro i muri inondati dal sole.
Una luce che in questa città non sa mai essere limpida e pura, e sempre un velo d'acqua passa in mezzo tra te e il mondo, sogno perpetuo che non se ne va nè sa di esistere.

In viaggio.
I paesaggi scorrono, il vento secca gli occhi che di rimando cedono lacrime, gocce nere che si disfano di continuo e restano in tracce scure sul fianco delle dita.
Perline di vetro nero ricamate su stoffa gialla, mani tenute occupate per tenere al laccio i pensieri, l'ago li trapassa e li cuce alla stoffa, cuciti stretti perchè non fuggano fuori controllo.
E il cuore pulsa forte.

Ricordo, io mi ricordo.
Quando prendevo la bici per venire da te.
Non erano nemmeno cinque minuti, non importava neanche che fossero passati giorni oppure ore.
Persone care che ti aumentano i battiti in ritmi asincroni, felicità perennemente acerba fatta di gesti mai conclusi.

Guardarsi negli occhi per sorridere.
Tu, che mi sei caro, tu che in fondo resti altro da me, mai interamente noto, tu altra vita e altra via.
Tu che sembra riesca a vedermi per ciò che sono, che mi guardi con affetto nonostante i difetti con cui ti sommergo ogni giorno, tutte le paure e le insicurezze che porto con me come catena pesante con cui so legarmi stretta.
E per qualche motivo che non capisco sei ancora lì, ad esserci e prestare attenzione, perchè per un tempo che non ci è dato sapere possiamo lasciare i notri passi a spiegarsi vicini, per ascoltarci in silenzio, toccarci in uno sguardo.

Persone che ti sentono per quel che sei, in quelle sfumature che sembrerebbero non poter condividere lo stesso corpo.
Tocchi dolci che vanno e vengono, parentesi tra schianti d'acqua infranti sulla pelle che lasciano segni come ustioni a tener memoria di sè.
Furia e dolcezza per contrappunti sincopatici in cui solo il desiderio ha diritto d'esistenza, mio o tuo non fa differenza.

Da sola mi faccio male, inizio a colpirmi nei punti deboli, affossarmi in colpi sordi per uccidere la capacità di guardarmi senza rancore.
E se faccio così è perchè mi dico che prima o poi anche tu riuscirai a vedermi come io mi vedo. E allora comincio fin d'ora a impugnare arnesi di tortura per punirmi di quel che sono.

Eppure scaccio i demoni, o almeno fingo di ignorarli.
Occhi chiusi e schiena inarcata ad accogliere carezze lente
vado in cerca delle tracce che mi hai lasciato addosso.
Segni tracciati a fondo, incisi dentro, mi fanno bene.
Sento per un attimo di potermi placare nel tuo abbraccio
e in quel momento, in te, mi riposo di me.

martedì 2 settembre 2008

légàmi

Passare da un luogo significa farlo proprio, scrivergli sopra il proprio tempo.
Sono foto, istantanee, suoni e voci che si mischiano alla terra, le dita aperte che entrano tese ma restano morbide nel penetrare quel corpo umido che vibra e respira, che la terra è energia anche quando facciamo finta che sia solo materia inerte. E' calore e forza ciò che i polpastrelli portano con sè, mentre la sabbia solletica irregolare sotto le unghie e la pelle si bagna appena nel fresco guardato dall'ombra.
Mescolare terreni e storie per ricordi sepolti a tempi brevi sotto il filo del suolo. Segni di riconoscimento a cui tornare, lì per noi, che siamo noi ad averli tracciati e lasciati per saperli trovare di nuovo. Fazzoletti bianchi appesi ai rami che il vento non riesce a portar via.

..quelle scale sono le note della tua voce in saliscendi..

Ieri, temporale scuro a invadere la sera. Sicuro di sè, Settembre è arrivato senza preavviso.
Pioggia che viene, si schianta, violenta. Vorrei saperla imitare.
Di colpo mi accorgo che so riconoscere il suo profumo. La pioggia sa di ruggine...
Prima che il cielo decida di caderci addosso corro incontro al vento, lo reclamo, faccio sì che la mia faccia, il mio corpo intero ne siano travolti. Gli sfreccio in mezzo, ferendomene di contro all'aria tiepida delle nuvole colme.

e i miei pensieri sono sciarpe di seta

légàmi
legami, a nodi stretti
aperti, gli occhi chiedono corde di cui non hanno bisogno
le mani sanno toccare l'aria, non è necessario fermarle in legacci
e tuttavia continuo a volere e chiedere nodi
in fermoimmagini allo specchio che guardano i propri volti riflessi
no, non sono necessarie corde, nemmeno fatte di seta
si tratta solo di un gioco, fatto per immagini
e nelle corde traccio le tue
in quei fili tessuti stretti stanno i tuoi desideri
corde con cui mi incateno
sciarpe di seta intrecciate in nodi che si sciolgono lenti
ad ogni respiro rinsaldo la presa

sabato 30 agosto 2008

inessenzialmente

io...
Stanca.

E non voglio vedere che forse in fondo l'esigenza è solo mia.
Ci si vende per soldi. Oppure per parole, sguardi, attenzioni di un momento o poco più. Ma alla fine si arriva sempre allo stesso punto. E alla stessa considerazione di sè...
E poi ti svegli e ti chiedi perchè, cosa stai facendo, se ci sia un senso in questo teatrino di maschere che non sanno far ridere. Nemmeno piangere in realtà, e stanno lì, mute, appese al muro, senza nessuna parola da dire, le storie da raccontare dimenticate da tempo.
E tanto cederò a me stessa fin troppo presto, buoni propositi e orgoglio verranno sotterrati ancora vivi sotto la sabbia.

Il mio fedele censore farà il suo sporco lavoro anche stavolta, con ogni attenzione e cura possibile.
-Vedi, è che cadi nell'inessenziale...


restano campanule rovesciate che puntano il cielo
una terra secca e viola fragili che respirano acqua

giovedì 28 agosto 2008

random mind

Marmellata d'arance grezza, mele a pezzi e arance in frammenti che si rompono morbide, la buccia tagliata fine, quasi inosservata.
Inverno pieno, una casa piccola al settimo piano.
Da piccola avevo ricevuto dei cioccolatini, una scatola intera. Erano finiti sul fondo di un cassetto, nascosti per bene perchè in casa non venissero fatti fuori prima che io nemmeno potessi sentirli. Conservati con gelosia maniacale, senza toccarli perchè non finissero, e alla fine la cioccolata sapeva di sapone, di tutte quelle roselline bianche che profumavano i cassetti di legno pesante. Confessioni di un viso triste e un tesoro ormai inutile.
Non bisognerebbe conservare le cose così a lungo. Tenerle in un angolo, chiuse al sicuro e al riparo dagli sguardi, convinti di tenerle così in serbo per un domani. E poi, quando andiamo a cercare ciò che abbiamo con cura messo via, scopriamo che nel silenzio ha cambiato forma. E non riusciamo più ad avvicinarci, a gustarne il sapore o il profumo, a sorriderne.
Marmellata d'arance, conservata per mesi, con cura, forse senza sapere nemmeno bene perchè. Oppure sì, tenuta per colazioni immaginarie in giorni che poi non sono venuti. Ma a un certo punto bisogna lasciar andare, accettare che l'inverno è passato e con lui anche la primavera. E ora anche l'estate sta per finire. Pochi mesi e ci saranno le arance nuove.
E ieri ho aperto il vasetto, pane appena fatto e burro leggero per foglie gialle di fine estate.

Carezze che non sanno di esistere, bruciate d'ocra in contatti troppo forti che dimenticano dolcezza e cura. E forse per quello il mio viso prende tinte spente di viola, nel bisogno di abbracci per mettersi a nudo, calore dolce per sentirsi al sicuro.
Pane caldo appena imburrato, e lenzuola di burro per scivolarsi addosso, senza peso sospesi nel tempo.
Passare la notte avvolta nel tuo abbraccio, braccia a circondarmi e tenermi stretta per respirarti. Respirare il tuo odore per tutta la notte e conservarlo fino al mattino.
Sorrisi che commuovono e colmano il corpo intero, in doni lontani di serenità pura, montagne salde che offrivan riparo. Il tuo, desiderio di abbraccio ricevuto in dono, solidità di monte che avvolge e rallenta i pensieri, dolcezza d'ombra di pietra forte.
Sfruttare la notte per cacciare il giorno, potermi adagiare su te a chiudere gli occhi, respirando lenta.
Maledire il mattino che allontana e porta via.

Bambino tenuto in groppa, spalle larghe che sanno accogliere, spalle forti che sanno dare sostegno. Mani grandi che ne stringono altre, mani piccole e ancora incerte, abbozzate nelle forme e nei gesti, morbide nel muoversi e nel disegnarsi.
Occhi limpidi e un sorriso chiaro sul volto di un ragazzo forse uomo che mi commuove senza motivo, solo per quella sospensione senza peso che brilla di vita.
E poi un altro bambino, poco più grande ma quel tanto appena da poter camminare da solo, passi come sonagli che ridono incespicando. E le fiamme calde attraggono troppo, per piani fatti di finta sete, una bottiglietta d'acqua tra le mani perchè le candele non brucino più.

E ti parlo di me, ti racconto quel che succede, delle persone che ho intorno, di quelle che conosci e di chi ho incontrato da poco. E le tue parole sono il vento che le nuvole stanno conservando per il grigio futuro, quelle carezze di mani fredde che le guance ricevono come fossero schiaffi.
E io uso troppe parole, cerco di chiarire dove non c'è bisogno, e mi dici che forse qualcosa non va.
Tentativi di coprire silenzi.

Note di amici e parole in silenzio tra colori e luci di una città in festa. Viole cantate e rose appassite, parole che suonano amare mentre il mondo intorno si ovatta e scompare, i pensieri pulsano in ricordi mai nati.

La tua città sparisce, e con lei il fiume di auto di un traffico troppo pesante che non rispetta il bianco barocco che mangia il sole che cala. Tutto scompare mentre intessi parole per scrivere i miei sorrisi.

Luoghi dalla freddezza industriale, pavimenti rotti, fatti di solo cemento. Fa freddo fuori e dentro, fino alle ossa che sono talmente ghiacciate da rischiare di spezzarsi di colpo.
Inverno denso e quella pianola a fiato che suona, mentre io abbasso gli occhi tristi a terra senza accorgermi che mi stai guardando.
Torna indietro, torna tempo che non è più, torniamo noi sospesi e si sente l'inverno che romba mentre fuori suona il mare.
Penso a quella lanterna che non è mai volata e vorrei che la facessi volare per noi. Una sera vai sulla spiaggia, vai solo, e incendia il cotone dentro alla carta chiara, falla salire in una notte d'inverno, regala la luna a quei bambini che credevano di poterci arrivare in un soffio.

Sono musicisti, artisti di strada, mimi e mangiafuochi. E poi ci sono maschere vestite di broccato, che ti guardano gli occhi per leggerti il cuore. E tu non ci hai mai creduto, e per dimostrarmi che in loro non c'era nulla di vero mi hai dipinta come sabbia fusa che cola da una clessidra bruciante di un fuoco rovente.

Campanelli d'argento per svegliarsi e vendere fuoco, donarlo nelle scintille che salgono leggere, incoerenti e senz'ordine alcuno, vive.

Grumi dolci in fondo a sè, pulsanti.

martedì 26 agosto 2008

macerie fertili

Scoprire di essere ricambiato dovrebbe davvero disilludere l'amante sul conto della creatura amata. "Come? Sarebbe dunque essa tanto modesta da amare perfino te? O tanto stupida? Oppure - oppure -".



Omaggi in musica ascoltando voci lontane, voci vicine che solcano il tempo per volarti a fianco.
Giorni che passano per ritrovarsi in buonGiorni sempre nuovi, limpidamente chiari, in cui sentirsi, scoprirsi e riscoprirsi ogni volta da capo, mai interamente noti, mai scontati, sempre noi, ogni volta nuovamente noi, nuovi noi.
Soffiar via abitudini e polvere per rinascere ad altra vita, ogni giorno rinascere senza rinnegare ciò che è stato, ciò che è passato.
Presenti, Passati, Futuri. Tempi inestricabili vincolati tra loro in nodi stretti.
Good Morning.

Temporali violenti scuotono la terra, lambiscono ogni cosa e tutto si ritrova sbalzato via, vorticante in aria, in equilibrio dinamico come vita.
Vortici senza ordine nè logica per scordarsi di essere statici, per scordare i propri limiti e tenere gli occhi aperti.
Macerie per rinascere ad altra vita.

Misticanza sonica, ed è succo acerbo di densi silenzi che tornano alla vita.
Mi sogni alle finestre della mia casa, vicinanza fatta di braccia a toccarsi, nessun altro contatto.
Crollano le case, la città viene giù, e noi a guardar fuori farsi cenere e macerie. Crollano le case e cadono i fili su cui ci tendiamo a camminare in equilibrio fasullo, profeti folli dalle parole inutili.
Cadono i fili e ora è la terra ad accogliere i passi, macerie fertili su cui rinascere.
Silenzio vivo. Silenzio per respirarci.

Era quiete immobile la mia, stasi di quella vita che deve essere immobile per gettarsi nel vuoto e librare nell'aria. Gettarsi a capofitto nel Mondo.
I temporali svegliano di colpo, le palpebre sbattono ad ogni tuono e i lampi schiariscono irregolari i pensieri, decisioni già da sempre lì ma nascoste alla vista.

Non è irrequietezza sotto pelle, non è fuga.
E anche se col primo freddo sarò di nuovo in viaggio, prenderò il volo sfruttando le correnti che come scie seguono il temporale e viaggiano veloci, sospese in alto giusto sotto la volta del cielo, in realtà non sto partendo.
Grumi dolci a fondo petto, scuri come terra bruna, dicono di restare, chiedono cura, negati dallo spazio e dal tempo che ghignano come sorriso di fredda luna.
Tenuti stretti, portati dentro come linfa che scorre nelle vene e si spande e mi scalda, sono il mio antidoto al gelo dell'inverno imminente, manterranno sciolti i miei pensieri e fluido il mio sangue.
Grumi dolci per mettersi a nudo e sentirsi vivi.

Non vi dovete accontentare di me.
Scordarsi di credere ai vecchi difetti per varcare limiti e solcare il tempo.
Non voglio qualcosa di meno e la cura ha bisogno di nutrimento.
Non voglio accontentarmi di me, non voglio che siate voi a farlo. Volarvi a fianco, ma per farlo devo conoscere le correnti.
Ci affido al vento per ritrovarci in aria, sospesi in alto, senza peso.
Il temporale passa, le macerie e la cenere sono fertili. Rinascere a nuova vita.

Un campanello al polso, argento leggero trafitto da un ago, che voglio guardarti senza fare rumore, arrivarti alle spalle e toccarti leggera.
Senza parole mi sentirai per contatto.

[F. Nietzsche, MartaSuiTubi]

venerdì 22 agosto 2008

desideri distorti

confine instabile tra bene e male

senza dolcezza
inchiodarsi al muro
sogno distorto
in colpi fondi

giocare al massacro con delle idee
per violentarsi con lame da quattro dita

giorno per giorno lasciarsi andare
e volere ancora che il gioco continui...

giovedì 21 agosto 2008

fiori di polvere

dalla polvere ho imparato a non chiedere nulla
un fiore di stoffa raccolto da terra
fiore di polvere

polvere sulla pelle e nei vestiti, nelle nostre parole
polvere a ricoprirci e togliere l'aria
gocce di pioggia a impastarsi e diventare fango
parole lacere che non sanno nulla di sé

il cuore
si spezza
d'improvviso


quasi senza motivo

mercoledì 20 agosto 2008

Finist Belfalco

-Babbo! Dalla nostra sorellina, di notte, c'è sempre qualcuno che parla con lei. Anche adesso!
Il padre si alzò e andò dalla figlia minore, entrò nella sua stanza, ma il principe già da un pezzo si era trasformato in penna ed era nella sua scatoletta.
-Ah, voi, linguacce, - si rivolse il padre alle altre figlie. -Invece di lanciare accuse infondate fareste meglio a badare a voi stesse!
Le sorelle maggiori vegliarono e vegliarono finchè una notte videro il falco entrare dalle finestra della loro sorella. Decisero di ricorrere ad un'astuzia.
Non appena fu buio con una scala salirono alla finestra della sorella e, tutto intorno, vi conficcarono coltelli affilati ed aghi acuminati.
La notte arrivò Finist Belfalco e per quanto si dibattesse non riuscì di entrare nella stanza. Si ferì il petto, si tarpò le ali. Ma la ragazza dormiva e non potè sentire.
- Addio fanciulla! - disse egli. - Se vorrai trovarmi, dovrai cercare oltre i monti e al di là del mare. E mi troverai solo quando avrai consumato tre paia di zoccoli di ferro e tre bastoni di ghisa ed avrai rosicchiato tre pani di pietra!
La fanciulla nel sonno sentì queste parole spiacevoli, ma non potè svegliarsi nè levarsi e continuò a dormire.

I miei gomitoli si srotolano dalla parte sbagliata. Tento un lancio, un passo, e il filo s'ingarbuglia, s'intriga tra i rami. Non c'è strega a cui chiedere, nessuna prova da superare, nessun ostacolo da ridurre in briciole.
Se pianti aghi e coltelli le ferite saranno la moneta di scambio. E allora di che ti stupisci?
Come Finist, l'unica cosa che resta da fare è aprire le ali, prendere slancio, volare lontano.
Resta pure coi tuoi coltelli. Sai che non li riporrai nemmeno per te.
Ferire e ferirsi, per quel che si è. Non per un gesto, nè una parola, ma tenere lontani per la propria essenza.
Che c'è qualcosa di profondamente sbagliato, ma quando siamo troppo vicini si smette di riuscire a vedere.
E allora non riesco a guardarmi, estranea e lontana.
Sento i coltelli ma non ricordo più dove li ho conficcati. E come sempre riuscirò a ferirmi e ferire chi si avvicina.
Come Finist, le ali lacerate faranno gettarsi in volo. Ma i miei coltelli sono penetrati fondi a terra, e dritti dentro al suolo mi terranno conficcata in esso.
Mi strazio le labbra per ridurle al silenzio, dalle loro gocce di sangue nessuna parola, che chi mi è caro non debba subire le mie paure.
Corpo inutile che non sa parlare, che diventa un peso da portare con sè, pesante e grave. Viso irregolare e composto male, che non sono gli specchi a saperlo riflettere. E ora resta scomposto e rotto, senza occhi da guardare che sappiano rimetterlo a posto, che lo schiariscano con lentezza, dolcemente attenti.
Sono conchiglie rosa quelle che tieni in mano, raccolte dal mare. Sono ancora cariche dei suoi umori e dei suoi sapori, sanno ancora far suonare leggero il vento che sa di sale.
Le tue parole come conchiglie ancora bagnate di mare, tra le mani per accarezzarmi il corpo.
Ma sono schegge, cocci e frammenti, e all'acqua che leviga restano fratture scomposte e tagli acuti a stridere e graffiarmi scivolandomi addosso, scivolandomi dentro, inerti senza sapere.
E cerco di non pensare e guardare il mare, a cercare il rosa madreperlaceo che riflette il cielo, ceruleo cupo che s'immerge nell'indaco.
Non penso e lascio che le onde mi bagnino, riescano a sommergermi, possano portarmi via. La sabbia non offre sostegno e ad ogni risacca posso solo sprofondare un poco in più, trattenere il respiro e sentire il sale che brucia forte.
Ci credi? Tu ci credi ancora?
Non riesco ad opporre resistenza all'acqua e ogni volta mi lascio sommergere.
Forse anch'io una conchiglia rotta in balia di scogli e sale, acqua che lava e porta lontano, porta via senza lasciarsi in ricordo.
Io e i miei coltelli, i miei coltelli che fanno male e portano lontani.
Finist Belfalco vola via senza parole e io non ho gomitolo per ritrovarlo, nessuna strega mi indicherà la strada.
Io sono i miei cocci di vetro. Io sono i miei no. Io sono i no che pronuncio e che mi vengono detti.
Stretti tra le dita per gocce di sangue, conficcati in gola per imporsi silenzio.
E lacrime strane sciolgono il tempo per un presente che non ha fine, fatto di no che uccidono lenti, no per sentirsi negati.
Sogni che non vengono e un sonno che giunge senza avviso, sotto un cielo troppo chiaro fatto di luna bianca e sgombro di nuvole. Addormentarsi piangendo e svegliarsi sotto la pioggia che viene.
Cocci di vetro per farmi male e farmi far male, senza riuscire a vederli, senza riuscire a sottrarmene.
Forse m'incanto troppo a vedere il sole che filtra e cangia, prisma fatto di bordi taglienti che spande la luce in colori vivi.
Ferma, senza capire nè riuscire ad andarmene, inseguo la luce bramandola per sentirmi viva.
Ma Finist Belfalco vola via, e io ho lacerato troppo le ali per potermi alzare in aria. Lame di luce filtrano tra i tagli e s'infrangono sulle gocce d'acqua che lascio cadere per terra.
Persone amate. Per ricordarsi che non si è solo vetro in frantumi, che talvolta i cocci di vetro sono piantati profondamente anche negli altri, e non sei tu a ferire ma sono i cocci conficcati sotto pelle a far sanguinare e piangere, anche se non riesci a vederli.
Persone amate per riuscire a guardare i propri cocci di vetro.
Persone amate nella piena luce del giorno.
[Finist Belfalco, fiabe russe]

venerdì 15 agosto 2008

temporale opaco

Veli sospesi, uno sull'altro, a scivolare in contatto minimo, fruscio d'aria a cambiare il cielo.
Pioggia per ferragosto, a scrosci, grani in caduta sopra i grappoli bianchi dello stefanotis, arrampicato sui fili, avvinghiato immobile.
Asfalto come fiume in piena, odore tiepido che entra dalle finestre aperte, umido.
Pioggia e note a suonare, reazioni chimiche che esplodono sotto vetro. Piccole dosi, osservate dall'alto, galassie esplose in espansioni controllate, tracciate in sensi d'attesa.
Luce gialla sul filo dei tetti, a mischiarsi col grigio colmo di pioggia.

Acqua che cade e temporale compresso dentro, a picchiare contro la pelle, tessuti e fibre che assorbono i colpi, senza cura, senza limiti.
Corpo liquido.
Torture acide che lasciano a respiri rotti, occhi chiusi.
E non so prendermi cura di me, mani inutili che non sanno fare, non vogliono imparare.

Immagine sfocata che non crede a se stessa
come puoi darti se non ti appartieni?

Persone lontane che non so toccare, non riesco a raggiungere.
E i lampi non cicatrizzano, sanno solo rompere l'aria, ferire ancora.
Troppo lontani, troppo lontana io per un abbraccio, che le parole non bastano.
Dolcezza a fondersi nel temporale in arrivo, gocce d'acqua che cadono e si schiantano a terra.

lunedì 11 agosto 2008

le fate danzano, ma non concedono invito

Niente stelle per S. Lorenzo. Mi avrebbero resa triste.
Non avremmo trovato cielo pulito, senza inquinamento di luci, sarebbe stato un nero sporco, le stelle a lottare coi nostri rumori.
La luna sta crescendo, tra pochi giorni sarà piena.
Anche lei copre le stelle, e per una volta spero siano nuvole.

Vorrei luna nuova, luna nuova per far respirare il cielo, che la luna piena è sempre implacabile su di me, non mi concede tregua.
Le fate sogghignano perfide danzando intorno al biancospino mentre i faggi ospitano le streghe in raduno, e io, in pieno maleficio, rispondo alle loro nenie e ai loro inganni, entrando nel cerchio per intrecciare i miei passi ai loro.
Solo invitati si può venire, e io resto così a guardarmi da fuori, chiudendomi a doppia mandata perchè neanch'io riesca a varcar la mia soglia.

Nessun desiderio, che tanto le stelle già li conoscono, glieli canto ogni notte tornando a casa perchè poi vengano soffiati dentro al mio sonno e nei miei respiri continuino a vivere, fiammelle leggere che chiedono aria.
Mi sveglio con un sorriso appoggiato sul corpo, occhi che sanno di carezza chiara, mani che ancora indugiano lente, ricolme di cura.

La notte inizia a disfarsi, brandelli che restano e lasciano tracce nel giorno fatto, pulsando asincroni per non farsi scordare.
Il giorno segue, il mondo pure.
Io continuo a vivere di quei tocchi, che mi si sono attaccati addosso, che continuano a battere lenti, senza tempo, che mi legano stretta con nodi d'etere.

giovedì 7 agosto 2008

notte di pioggia

notte di pioggia forte, cielo in rivolta, odori acuti impregnati di buio.
al chiuso, restare immobili a guardare fuori per lasciarsi trascinare dalle gocce d'acqua, gettare fuori i pensieri per farli finire scroscianti a terra, rumori indistinti a fluire via.
gocce di pioggia a frenare la luce, schegge sospese in aria a rompere il buio.
in sottofondo tintinnio metallico, scosso dal vento.

le ginocchia raccolte al petto, lo sguardo perso, i pensieri anche.
senso di scacco, impotenza.
non poter far nulla per raggiungere ciò che cerchi, che il mondo s'intromette beffardo come a prendersi gioco di noi, inventando sempre nuovi trucchi per farci affidare al vento e poi perdere quota, schiantarci di colpo.
e incassi, e cerchi di convincerti che prima o poi ce la farai a prendere il volo e nelle correnti d'aria ci sarà equilibrio fatto di evoluzioni, planate e slanci, acrobazie che s'intrecciano ridendo, energia pura che si snoda e vibra vorticando su se stessa, gioendo di sè.
e vai avanti, giorno per giorno, un respiro fondo a salutare il sole per ricordarsi di tenere gli occhi aperti, a farsi riempire e lacrimare d'aria.
ma in fondo a tutto una mancanza acuta, a ricordare...

nostalgia e desiderio, legati stretti.
cercarsi comunque, che non puoi farne a meno.

mercoledì 6 agosto 2008

per terra, desiderando il cielo

Il blu violaceo sfuma. Memento. E smonto il passato un pezzo per volta.

Occhi bassi che chiedono di tornare bambini, per non dovere più essere cinici, per riuscire a incantarsi di nuovo.
Ma non è troppo distante, e intrecciamo fili e voci in discorsi antichi per tagli nuovi, a cercare sorrisi sul viso mentre giochiamo sull'erba.

Il blu violaceo sfuma mentre smonto il passato, un pezzo dopo l'altro.

Ma ne ho bisogno per andare avanti.
Ho bisogno di salutare la me bambina e il suo letto giallo, che ancora sono convinta sia stato dipinto mentre dormivo, in un pomeriggio come uno di questi, con le finestre aperte e la luce a entrare con forza.
E ora seduta sul legno, quasi accucciata, svito i perni, lo distruggo e le assi cadono a terra, spazio vuoto dove c'era il passato, solo aria a restare sospesa, silenzio.

E i passati vengono sempre a fare visita tutti in una volta, così da non capire più in quale delle tue tante vite sei.
Incrocio sguardi, sorrisi, intreccio abbracci. Altri li posso solo fuggire, stilettate in petto, profonde, che ancora sanno far male. Ritorno, e mi sento sbalzata fuori di me, nei miei mille passati, senza capire più chi sono, dove mi trovo, chi ho intorno a me. Mi fanno visita senza aver ricevuto invito, ed è strano sentire il mio nome su labbra che pensavo l'avessero scordato da un pezzo, voci ancora note, altre che non riesco a sopportare, fuggendole per non doverne sentire il timbro, per non dover rispondere.

Il Giardino vibra, onde elettroniche, voci amplificate, dijeereedoo, fari puntati sugli alberi in colori di plastica, mattoni antichi che accolgono luci e storie.
Sdraiata per terra, una collinetta che ospita un albero, toni blu, alcune foglie macchiate di porpora. La terra sotto e le mani afferrano l'erba cresciuta sul secco. Una voce continua a narrare, lenta, parla, racconta storie, s'intreccia ai suoni e alle luci.
Fuggo nel buio, nel cielo, non voglio pensare a tutti i miei passati.
Sento la terra e mi rifugio nel cielo.

Desiderare. De-Siderare. Aver nostalgia delle stelle.

sabato 26 luglio 2008

cielo di polvere

è stupido
pensare che
la polvere
sia immobile

Cielo di sabbia, sabbia gialla che cade dalle dune del cielo mentre case e nuvole cambiano tono, un grigio caldo che scende dalla volta barocca del giorno in finire, vento a trascinare veloce, colpi radi di azzurro lucido.
Acqua che cade, seta bianca sulla pelle, trasparente nel suo bagnarsi, forse la seta, forse la pelle.
Mani vive, sporche di nero, a litigare contro una bicicletta quasi troppo nuova che con la pioggia decide bene di scardinarsi e mollarti sotto il cielo che viene.
Acqua che cade, scirocco d'Afica in un Rinascimento d'estate, silenzioso e immobile, cotto rosso bagnato dall'acqua, rilfettente la luce del cielo, splendente quasi.
Strade lisce, vuote, uno scalone di pietra bianca e un cielo che continua a sembrare di sabbia, clessidra rotta che rilascia nell'aria grani dispersi.
Mani leggere appoggiate sui fianchi, gocce d'acqua a bagnare la pelle, ricercando equilibrio per non cadere, scivolare leggeri senza senso d'attrito.

Sabbia dal cielo e pagine impolverate su un pianoforte chiuso.
No, la polvere non è immobile, però congela le cose.
Ferma il tempo e lo ricopre lenta, la sabbia scende e sotterra i pensieri.
Ma poi saltano fuori pagine antiche, oggetti senza perchè che anche fossero spariti non ce ne saremmo accorti.
Ritrovo un'altra vita, un'altra me, le scelte che non ho fatto per paura, un'io che ho censurato sotto cumuli di discorsi razionalizzanti, una me a cui non ho lasciato spazio e brucia forte.
Chiaroscuri tracciati con cura e con forza, contrasti e sfumature in cui alla fine non facevo altro che annullare tempo e pensieri, diventare luce, ombra, colore, forme da snodare e reinventare ogni volta.
Grafite e spazi bianchi, vuoti di luce a lasciare aria, le mie mani erano vive.
Mani che devono saper essere vive, e suonare arabeschi con la punta dei polpastrelli.

e suonerei per te di notte sulle scogliere
illuminate da una luna blu
che ti illumina il corpo
che danza come vento d'inverno

Desiderio.
Desiderio per sentirsi vivi.
Alla fine non è cambiato poi molto.
Ed è un suono cupo e fondo che risuona nel petto. Sordo.
Vivere di desiderio e sentirsi spenti, sentirsi spegnere.
Ricordo. So. Sento.
Attesa.
Non mi accontento.
Desidero.
Desidero per sentirmi viva.

Oblio.
Dimenticare per lasciare spazio.
Fare vuoto, lasciare andare ciò che non appartiene più, ciò che era un tempo, senza condanne, senza rinneghi, solamente perchè ora non è più.
Se non si dimentica il nuovo non può sorgere. Non c'è spazio per tutto.
E ora è il momento di lasciare andare.
Ricostruirsi.

è stupido
ma chi si controlla
sta perdendo il suo tempo
e si culla sulle onde del mare

[Scisma, Div]

venerdì 18 luglio 2008

ponti fragili, sospesi in aria

Non siamo qui, non davvero. Ci forziamo ad essere per contrastare uno spaziotempo che cerca di estrometterci, un mondo che penetra per contatto senza chiedere permesso, portandoci fuori da sè. Fuori da noi.
Fratture e fragili suture che cercano di tenere legati così da non finire totalmente fuori asse, così che i pensieri e i sentire possano ancora fluire senza trovare ostacoli sul loro sentiero. Ma poi inciampiamo, di continuo, e mentre facciamo finta che non sia così e neghiamo la cosa non facciamo altro che rinsaldare quella distanza fredda e lontana che si è andata a creare.
Qualcosa non funziona più, si recitano copioni imparati un tempo a memoria e resuscitati in incerte reminescenze, giocando con dei noi che forse non esistono più. Almeno non più con quella forma, in quello stare. Non ci capiamo più, non ti capisco, non mi capisci, ci feriamo in un niente, suoni uditi ma non più intesi.
Kairos che ci reclamano e noi a far finta di niente, convinti che un giorno si decideranno a tornare per noi, ci faranno ancora visita. E mentre lascio scorrere via penso che voglio essere io a negarmi ad esso, a questo spaziotempo, io a creare e decidere i miei momenti opportuni.

-Non si tratta di pensieri. Perchè mai non capite? Dovreste piuttosto affrettarvi, se davvero volete trovare quanto cercate. Presto non vi sarà più spazio, presto sarà tutto completo, finito. [...] Mari, montagne, isole, continenti, ovunque vi è già qualcosa... All'inizio tutto era bianco e vuoto. Ora non ci sono più che pochi spazi liberi. Se volete, sceglietevene uno.
Cyril fissava il mappamondo roteante.
-E secondo lei che cosa avverrà quando ogni spazio vuoto sarà riempito? domandò.
Il vecchio fece nuovamente udire quel suo rumore ansimante e strano, poi rispose -Che cosa ne so? Si vedrà. Forse la fine del mondo. E' quello che spero.
Cyril fermò il mappamondo. Vi era ancora una minuscola macchia bianca. Vi pose sopra il dito.
-Qui, disse.

Mi rifiuto, mi ribello al tempo e alle sue gabbie, alle mie gabbie, alle mie paure, alle nostre paure, ai pregiudizi troppo stupidi per potersene fare fermare, così mortiferi, mentre l'istinto vitale è tutto ciò che bisogna seguire, che a saperlo ascoltare e sapersi ascoltare si è sempre al di là del bene e del male, fedeli a sè, vivi, aderenti a sè, e non serve altro, nient'altro da chiedere o volere.
Non mi voglio piegare alle nostre paure, non voglio sottomettermi al sentirmi inadeguata e fuori luogo, che ciò che fa bene è per sua natura buono, da accogliere senza condanne ipocrite, da seguire e da cui farsi condurre.

E quando non riesco ad abbattere i muri nei pensieri o con le parole, allora lo faccio col corpo, con ciò che posseggo di più istintuale, di più vivo, che le parole spesso portano con sè distanza, fioriscono malintesi. Ci sono troppi pensieri, troppi vissuti, nelle parole.
Ma in un colpo d'occhi, un sorriso, un abbraccio, siamo noi, noi che traspariamo, diventiamo trasparenti a noi stessi e a chi ci è caro nei nostri gesti.
E allora per primo cerco il terreno che più istintualmente ci unisce, quello dove possiamo toccarci per poterci incontrare di nuovo, al di là di ogni difficoltà.
E' un ponte tibetano sospeso sull'abisso, un'impalcatura fragile, ma solo un ponte è possibile ora, ponte che aiuta a toccare senza tuttavia avvicinare così tanto da far collassare nello schianto, ponte esile che mantiene la distanza ma è in grado di guardarla, sospeso in aria, per cominciare a traversarla.

-E' passato quel tempo...
Quale tempo? Quello iniziale, della sfiducia e della vergogna? Quando ancora estranei si indovinavano ma non si conoscevano e si sentivano a proprio agio soltanto a letto, e anche lì solo fino a un certo punto: lei si abbandonava con fuoco, con fame di tenerezza, lui la educava a poco a poco, con pazienza. Erano come in prova a quel tempo. [...] Malgrado la delicatezza e il conforto di cui godeva, magrado le costanti attenzioni e l'afffetto crescente, quell'inizio aveva muri e inferriate come una prigione. E questo non tanto a causa delle limitazioni imposte dalla prudenza o dalla discrezione: quei muri erano dentro di loro. [...] Erano come in prova a quel tempo, il tempo della semina, con muri e inferriate, un periodo difficile.
Quale tempo? Quello in cui i semi germogliarono e sbocciò il riso? Quando alla voluttà si era aggiunta la tenerezza.

Note, contatti, colori, in cui toccarsi.
Ti cerco per istinto vitale...

[M. Ende, J. Amado]

venerdì 11 luglio 2008

riTagli

Testa che risuona sorda, colpi fondi, cupi, senza eco.
Trattengo tutti i pensieri tra le pieghe sulla fronte, bloccati per non farli arrivare a occhi e labbra, tenuti dentro per farsi più male, colpirsi un po' più a fondo.

Lo sapevo. Sì, lo sapevo. Ignoravo la cosa. Facevo finta di nulla mentre mi parlavo da sola.
Non ho nome. Non ho sguardo nè voce. A volte so di essere solo un'idea.
Peraltro mia.

Non cerco risposte. Che so le cercherei nel luogo sbagliato, da chi non posso trovarle. E in fondo il problema resto io con i miei nodi irrisolti, nodi che mi diverto a stringere, gatto a nove code fatto di parole.

Chiudo, ho chiuso tutto, me per prima.
Le vergini s'impiccavano per suicidio, stringevano il collo con un laccio per chiudere il corpo, chiudersi al mondo, uscirne.
Moderna e più invisibile uccisione, i muscoli stessi diventano corda a chiudere i polmoni.
Non voglio sentire, mi chiudo al mondo, chiudo il mondo a me, lascio fuori l'aria e mi tolgo la capacità di respirare.
Chiudo, ho chiuso tutto, me per prima.

Mi rigiro su me stessa senza mai toccarmi, aria ferma, resto immobile fuori da me.
Parole inutili, giocate in tutta la loro forza per affondare, dritto alle vene, trovate con precisione, al primo colpo.

Farsa. Favola della buonanotte che mi racconto a volte perchè i sogni siano più leggeri e la smettano di rincorrermi ad ogni buio per inchiodarmi al muro, per tutte le volte che col sole non sono riuscita a farlo per bene.
Vivo altri presenti, se avessi scelto altra vita e non questa. Mondo distorto che prende vita e s'impossessa di me, del mio corpo.
Sono scene sfocate, corpi a collassare uno sull'altro, scontri in cui non sopravvive nessuno.
Violenza di contatti per riuscire finalmente a sentire qualcosa, bramare in quella violenza l'energia che hai usato per venirmi addosso.

Giudice, accusato e boia insieme, i chiodi penetrano bene a fondo.

Sentirsi usati, stracci usati, scampoli, ritagli a respirare polvere e pioggia inquinata.
Vivere di ritagli di tempo, comprati al mercato nel cesto degli scampoli. Ogni toppa un pensiero, per abiti da vendere al miglior offerente.
Ritaglio lacero.
Forse prima o poi riuscirò a volermi abbastanza bene da non esserlo.

domenica 6 luglio 2008

bianco terso

Contemplazioni estatiche che attraversano il corpo e lo fanno vibrare come corda pizzicata, cassa armonica che risuona lenta espandendo colori e profumi. Un sentire che non è di testa ma è un pulsare fondo, vitale.
I piedi si appoggiano sul terreno quasi potessero penetrarvi come radici, arrivare all'acqua nel sottosuolo tenuta fresca dalla terra e dissetarsi, nutrirsi di scuro e fertile. Con i polpastrelli toccare l'aria tiepida, sentirla palpabile mentre il vento nemmeno passa, giusto in alto leggero a muovere nuvole. Colori negli occhi, geometrie come arabeschi che continuano a mutare il mondo, sguardi in prospettiva, mutamenti a ogni passo. Gli aghi dei pini marittimi a ricoprire il suolo, tra campanule bianche e viola leggeri, una corteccia a scaglie dense che nella resina diventa dolceamara, miele cupo che non scivola via ma si trattiene adeso. Voci forti, accese, distanti da quel vous così formale a cui ero abituata, cortesia estrema che quasi annulla i contatti.
Mi ricarico nei cieli romani, leggeri e tersi, recupero quelle energie che i cieli grigi del nord europa mi avevano sottratto. Cornacchie scure scacciate dalle cicale che nel silenzio assolato del giorno danno un ritmo al tempo, incostante e irregolare, pensieri in moto a rincorrersi senza legami, giusto un fluire.

Reinventarsi di nuovo, da capo ancora, in altri spazi, con altri tempi.

Modi di essere, sensibilità in un qualche senso affini, mentre scelgo nel cesto le parole più adatte, quelle che si confanno a noi. Censurarsi a volte, scegliere di continuo le parole sbagliate per cercare di venire incontro ad un pensiero o ad uno stare che ti sono estranei. Sentirsi sbagliati in partenza mentre è questione di legami; e altrove, in altri chi, le parole sono fluide, scorrono senza ostacoli a frenarne il moto, toccano a fondo, loro, giuste, accolte senza giudizio, comprese, intuito vitale.

Nessun pudore. Cotone bianco che taglia in due pagine e vite.

Pagine bianche, sospensione in cui fermarsi un attimo, solo tu e il foglio vuoto. Respirare insieme alla carta e alle sue fibre, sentirne la consistenza, scegliere un punto in cui partire. E sono solo linee da snodare, senza fretta, senza vincoli, forme libere di prender vita.

martedì 1 luglio 2008

sentire casa

Ci sono più case. Più case dove stare e a cui tornare.
Senso di spaesamento alla rovescia, per cui sapere che è uno il posto da chiamare casa, ma sentire che così non è.
Famiglie sparse per il mondo.

Clichés come antichi o sempre moderni rituali per celebrare un vissuto comune e rifarlo presente. Come ce ne fosse bisogno....
Sentirsi, legami, sorrisi, incroci conosciuti o attraversati per caso.
Estraneità familiare, Familiarità estranea. Familiarità talvolta estrema.
Non ho bisogno di ricreare il passato per sentirci Presente. Sempre nuovi presenti, presenti che vanno e vengono, evolvono, siamo. Li portiamo con noi.
Non sono mai gli stessi luoghi, ma vi ci abituiamo e smettiamo di vedere come cambiano per rendercene conto solo a tratti, come schiudendo gli occhi di colpo, momento di lucidità improvviso nell'andare avanti quotidiano troppo spesso sempre uguale, in cui non ci accorgiamo nemmeno più di ciò che ci circonda, di chi abbiamo intorno.
Vivo più realtà allo stesso tempo e forse questo è ciò che mi permette di non darle per scontate. Sono io che devo farle vivere.
E i miei occhi così restano aperti.

Sera, un odore che invade il corpo e gli parla con accenti chiari, note di casa, aria umida dall'odore dolciastro. Pioggia che ristagna sospesa, assorbe su di sè l'erba col suo sole raccolto nel giorno che ne disfa la consistenza, l'asfalto che ancora restituisce calore, i muri delle case impregnati d'acqua che nel ridonarla vi lasciano impronte di terra e di pietra. Lontane, chiazze di luce e dragoni a scatenare le nuvole.
E intanto continua a toccare la pelle l'aria fredda sul Pont des Arts, a scivolare tra le assi di legno sopra la Senna che pulsa dal basso. Brilla dell'ultima luce l'oro de Les Invalides, la Tour Eiffel riflette l'aria col suo metallo povero che incide il cielo, i battelli passano e spostano l'acqua che tocca gli argini e fa brusio.

La città un po' ci appartiene ora. Me ne rendo conto perchè ho tempo da perdere, perchè me ne lascio cullare nella notte sotto i lampioni aranciati, perchè sono parole che scorrono senza fretta, raccontando nulla e tutto, in fondo noi.

Lasciarsi, salutarsi, ritrovarsi. Lasciare casa e tornare a casa.
Sentirsi a casa.

venerdì 27 giugno 2008

schegge di legno, foglie di lauro

Restano fotografie non scattate su un letto ormai sfatto,
disfatto e rifatto per l'ultima volta.

La mia maschera appesa al muro mi guarda macchiata di nero, linee scure a dipingerle il volto, forse distorcerlo, inchiostro che scorre e incide parole.
Dal mio viso ho lavato ogni traccia di colore, i porpora e gli oltremare hanno lasciato posto a un bianco che riflette inerte la luce.
E se non sai potresti credere che sia sempre stato così.
Alterego scolpito che si fa bello coi miei trucchi migliori, i più studiati e i più freddi, puri artifici, immobilità sola in cui non si può esistere.
Al suo posto io, universo imperfetto e irregolare, per questo vivo.
Mastico lauro per pronunciare parole.

Non accontentarmi più delle linee che sono stata io stessa a tracciare
coscientemente per darmi forma.

Chiedersi che ne è di queste parti di sè, non ci si abitua a dire addio.
Lascio ciò che non ho detto, non ho fatto, non ho visto, portandomi dietro sorrisi e istantanee scolpite sottopelle.
E i silenzi? Colori di suoni sbiaditi, non so se serbarli o abbandonarli, in fondo sono solo lame che non hanno più filo.

Trucioli di legno come farfalle spiegazzate in aria
dispersi dal vento.

venerdì 20 giugno 2008

studi notturni

Dove debbo tendere davvero, là devo in realtà già essere.


[L. Wittgenstein]

giovedì 19 giugno 2008

spighe di grano

... e nonostante la grazia di certi luoghi si tratta di una bellezza grigia e inerte, nulla a che fare col respiro vitale che t'invade non appena esci dalla sua frenesia incontrollata, ogni spostamento un viaggio da pianificare.
Il fiume che si snoda senza condizionamenti, un cielo che si espande lasciando corso alle nuvole di condensarsi e scurire cupe il mondo per poi fuggire in sbuffi bianchi, luce chiara a filtrare sotto un cielo senza fine poggiato sui filari degli alberi.
Smette di piovere, e con la pioggia abbandono anche la scalinata di pietra di Auvers, grigio cupo lisciato dal tempo e riflettente luce, una terra finalmente senza asfalto, campi a tuttotondo intorno a noi.
Un mare di grano con le sue onde ad andare e venire, le spighe che si alzano fiere nel cielo, spuma bianca a brillare del sole opaco sul giallo cupo sottostante. Poi un raggio, improvviso, luce in cui i chicchi chiari diventano bianchi, le punte delle spighe oscillano e si piegano all'aria, il vento gioca e scompiglia le forme facendo apparire e scomparire a tratti graminacee dal colore violaceo, steli lunghi e rigidi dalle foglie stellate tra un verde e un rosso cupi uniti a sfumare uno nell'altro, papaveri dal rosso avido che afferra e scompare reinghiottito dal fluire del grano.
Filamenti lunghi a entrare nell'aria, non sapendo se sia il vento a sfiorare il campo o le spighe a carezzare il cielo, grigio scuro ma non cupo, fatto di nuvole piene, gravide di pioggia densa ma lontane, non pesanti e bloccate dal loro stesso peso ma galleggianti in aria, leggere nonostante l'acqua sospesa e trattenuta in cielo.
Soffio d'aria a intessere forme, un fluire di tempo che salta, senza ritmo, che filtra l'aria e ne scompone i pieni. Vorrei buttarmi e sentirmi sospesa, le spighe a sostenermi un attimo prima di affondare, il grano intorno e i chicchi ancora acerbi a punteggiare il cielo, il calore del sole chè già comincia a bruciare i colori, una terra compatta e scura, umida nel suo far respirare il suolo.
Sdraiata a respirare grano. Sdraiata a diventare grano, cercar grano. Scorgere stralisco... Lucciola o grano? Forse solo bagliore e inganno d'occhi, peccato sia ancora giorno pieno e non poter sapere. E se fosse davvero germogliata in mezzo al grano ancora acerbo una spiga di stralisco?

Ma c'è ancora troppa luce e lo stralisco brilla al buio, nel silenzio notturno, quando i pensieri tornano a sè, tornano vivi. Nessuna parola, pensiero in immagini, intessendo trame e orditi in disegni improbabili e irreali. Acuire gli occhi e sapere ascoltar l'ombra, consegnare il mondo al giorno e lasciarlo fluir via, quiete e silenzio per ritrovare forme nell'indistinto che annulla e assorbe in sè.
Riabituarsi a prestar cura...

il suo fiato, vasto e lento, sembrava l'onda del vento che piegava lo stralisco
[R. Piumini]

giovedì 12 giugno 2008

senza coraggio di chiedere

Mi serve disciplina ferrea per non crollare, per non lasciarmi spazio, che le nuvole grigie e la pioggia insistente hanno subito scacciato il sole, appena comparso, e di nuovo mi scopro addosso ferite che non vogliono guarire, resistenti al tempo e tenaci come non mai nel lasciarmi sanguinare. Nessuna tregua a prendersi cura di me..

Mi abbracci?
Peccato che non abbia trovato il coraggio di chiedertelo.
Anche se forse la paura più grande, quella che mi porta ora a crollare senza controllo, a cancellare parole prima di dirle, è di riceverlo, che un abbraccio domandato non si rifiuta mai.. Cerco di resistere, mi faccio ancor più male nel far finta che un abbraccio richiesto non servirebbe a nulla, che nel momento in cui ti chiedo un contatto del genere quasi diventerebbe vincolante, e temo che sforzando il tuo cuore per starmi vicino in questo gesto mi estrometteresti da te. Non lo voglio. E piuttosto resto a piangere sola, sotto nuvole bianche e morbide in cui il mio nero diventa ancora più scuro.

In silenzio, senza parole, senza dirmi nulla. Senza motivo tranne l'affetto, solo un abbraccio, nulla di più, ma stringimi un attimo. Accoglimi tra le tue braccia, contro il tuo corpo, il tempo di recuperare un po' di calore, poi potrai lasciarmi andare e i miei passi si allontaneranno da te, verso il mondo, e il viso rimarrà saldo in avanti, non mi volterò a guardarti. Abbracciami però. Non da amico, non da amante, non da estraneo. Abbracciami solo perchè mi vuoi bene e nel voler bene vuoi prenderti cura di me, perchè questo è affetto, prendersi cura, preoccuparsi per l'altro. E non per proteggerlo o fare passi al suo posto, ma solo per fargli sentire che non è solo, che ha un posto tra i pensieri in cui tornare e sentirsi accolto, accettato in quel che è, senza eccezioni, in ogni fragilità o contraddizione, sè, tu, io, interamente ed essenzialmente per quel che siamo.

Abbracciami, ora, anche se non ho trovato il coraggio di chiedertelo. Stringimi, anche leggermente se vuoi, mi basta anche solo un contatto, sentire il caldo della tua mano poggiata sulla schiena. Senza un perchè. Solo perchè ho bisogno di sentire calore e so quanto la tua pelle potrebbe donarmene.

abbracciami

mercoledì 11 giugno 2008

incrocidiventi

Quanto fanno bene certi sorrisi.
Ti ci specchi dentro, e magari se fuori è appena spuntato il sole nonostante sia già sera finalmente anche il viso può distendersi, tornare ad occhi limpidi che non vedeva da tempo, respiri lenti, finalmente aria ad entrare senza freni, mondo non visto più solo come un qualcosa da cui doversi guardare, a cui non concedersi per non rischiare di crollare in frammenti al primo pezzetto fuori posto, al primo sguardo tagliente o parola fredda.
Mondo che sembra voler chiedere tutto o niente, brilla o scompari, non ci sono vie di mezzo. E in fondo sono canoni che mi hanno plasmato fin troppo bene..
I passi rallentanto, tastano il suolo, gli occhi indugiano un po' più sulle cose, le imprimono in sè per poterle ricostruire nella distanza, gli odori cominciano ad avere sentore di fine. Forse perchè qui mi sono concessa tempo. Tempo di fidarmi, tempo di offrirmi e tempo di lasciare entrare, tempo di legarmi.
Sono venti strani quelli che ci portano a librarci nell'aria.
Venti che soffiano con forza portando con sè le geometrie perfette dei bianchi artici. Bonacce che scaldano l'aria, divenuta così pesante da appoggiarsi sull'erba tagliata d'estate tra giornate di quiete e immobilità assoluta. Libecci d'africa a sollevare sabbia ruvida che leviga cose e pensieri impercettibilmente, come sciarpa di seta passata su pietra così lungamente da smussarne ogni linea tagliente. Venti a portarci con sè, su, nell'aria più rarefatta dove i pensieri si perdono in giochi senza regole nè logiche, intrecci che seguono come unica via una bellezza di stare.
Resto così, in punta di piedi perchè il vento a passare non faccia alcuno sforzo a sollevarmi da terra. Sospesa. Cercando bagliori d'occhi prima di andarmene.