martedì 29 dicembre 2009

bianchi, neri e venature in mezzo alla neve

In fondo sogno più di giorno che di notte, mi permetto fantasie
che di notte uccido senza troppe cerimonie.
Nessun fiore bianco, bare vuote di cose mai state.
Mi trovo a sognare volti e corpi
con cui non ho condiviso che un arco di ore,
in un buio inquinato di suoni che assolve tutti.
Potrei davvero annegare nel primo sorriso che mi venisse rivolto...
I sogni riportano alla realtà, contrastano bianchi e neri,
un gesto mai stato diventa mano ad allontanare.

Di questi tempi i sogni sono più concreti del giorno:
non accettano compromessi
e non si fanno abbindolare da una carezza.
Però poi è difficile vivere alla luce
senza potere più immaginare nulla.

Bel lavoro, grazie sogni miei, grazie censore interno!

Eppure forse dovrei ringraziarli davvero.
Mi impediscono che a stupirmi siano cocci di vetro e monete false.


i semi si piantano, e crescono fino a fiorire e morire
nutrire poi di bacche bianche bianchi uccelli che saltellano intorno

diventano filigrane e venature in mezzo alla neve
e poi tutto ricomincia di nuovo



Rannicchiata potrei essere racchiusa intera
tra due braccia e un torace.
Non occupo molto spazio in fondo.

forse anche meno di quanto me ne occorrerebbe

lunedì 21 dicembre 2009

candeline da the

Evoco Eros senza capire che non serve a nulla, che è una voce gettata nell'arco tracciato a terra tra due monti.
Io resto lì a giocare con me, per lo più sola.

Uccido i tempi lunghi facendomi intorno terra bruciata.
Mi accendo sulle spalle candeline da the, come se in quella luce tremante potessi essere una lucciola, bagliori per dire quanto non so fare con le parole.
Candeline sulle spalle, e appoggiate sul capo chinato all'ingiù.
Candeline a bruciare i tempi e ad ardere me, in gesti e sguardi che sarebbero da esiliare.
E infine, in quella fiamma che trema, brucio anch'io.


Non saprai chi sono, e mi venderò a te per una carezza distratta.
Crederai che in fondo non chiedessi altro,
io fingerò tu mi stia carezzando.

E infine ti darò ragione.

giovedì 17 dicembre 2009

idoli

Siamo partiti col buio, col ghiaccio iridescente a incrinare i vetri, a irradiarli. Il cielo color blu notte, con un ritaglio di luna a inciderlo di sbieco.
Era notte e faceva freddo, c'era la luna e l'aria si tagliava con gli occhi. Poi è cominciata la nebbia, e il mondo è scomparso col chiarore del primo giorno.
La strada terminava, finiva nel nulla. Un respiro ad appannare il mondo e a tenerci sospesi.

Le cose non accadono davvero finchè non ci sei in mezzo.

Sono arrivati i monti, i colli del veneto. La galaverna costruiva qua e là sculture di ghiaccio, mondo riemerso.
L'alba alle spalle, verso le montagne uno slargo del fiume che apriva la roccia e ingrandiva la terra, vallata protetta. Costoni di pietra sedimentati a lastre, e un fiume d'acqua gelida che scorreva lento. Una casa sospesa su un appiglio di monte, ed eravamo già oltre.

Rose bianche e cenere, e gli idoli se ne vanno.
L'ultimo saluto, l'ultimo grazie mentre le campane suonano al cielo terso.

Bisogna dare idoli belli alle persone. Troppo facile, mediocre, inseguire ideali bassi, quel che già ci appartiene.
Io avevo scelto te e i tuoi capelli rossi in mezzo al bosco, me e le casette di cartone e felci.

Chissà se le ferite rimarranno.
Chissà se ora che non ci sei più sapranno col tempo riassorbirsi, o se invece non hai portato con te tutte le creme e gli unguenti, e noi resteremo qui a leccarci ferite aperte...

Nevica, e non avere chi si prenda cura di te nell'inverno.
Io qui a cercare contatti che non verranno, e se verranno saranno sbagliati.
Il tuo riso in ognuno di quei fiocchi di neve, a durare finchè non si appoggiano a terra.

mercoledì 9 dicembre 2009

nomi d'inverno

Da qualche parte, oltre Orvieto.


Lasciare Roma i giorni di sole mette sempre tristezza, che sa splendere quando sopra si ritrova il cielo terso. Le case chiare tingono luce, mentre gli intonaci colorati pulsano e toccano l'aria.
Campi e colline fatti di sola terra, e dicembre sa da primo autunno.
Intorno a S. Giovanni le case più ricche e con le pergole a incorniciare le porte sono ricoperte da gelsomini fioriti. Sembra febbraio, con l'erba nuova che sa di tenero, ma talmente rada da essere poco più di un respiro di terra smossa, una foschia leggera.
Alberi senza foglie, ma sotto il sole non sono tristi e sanno d'arancio cupo, vivido.
Il sole non si riesce ad alzare da terra d'inverno, e resta sempre sulla linea degli occhi. Le cose si colorano come fosse tramonto, il cielo resta azzurro denso e la terra si disfa e ricrea tra rossi e gialli e ocre.


Non so usare i nomi.

Come a volere appropriarmi delle persone. Tenerle legate in un vincolo di nomi creati apposta per quel legame e non per altri.
Ma forse non li uso perchè non so se posso permettermi l'intimità del tuo nome...

mi sei davvero così familiare?

venerdì 4 dicembre 2009

pesanti come farfalle

Deserto.

La pelle è fragile come terra secca, arida di giorno e con la notte subito scossa a un soffio d'aria.
Le carezze possono essere fatte per errore? Sono ancora carezze allora?
Gusci vuoti, che non risuonano di nulla visto che in fondo nulla li ha toccati.
Eppure forse è un bene.
E' un bene che le carezze vengano subito dimenticate se non ne si vuole sentire le mancanza. Spilli piantanti addosso, aumentano la presa col passare del tempo. Farle diventare lontane è l'unica cosa che ancora resta, così che si trasformino in un dolore sordo, così continuo da rimanere una nota di fondo che quasi non si distingue più.
Le lacrime servono ad epurarsi da quel quasi, a far sì che quegli aghi siano meno conficcati.
Le parole belle muoiono col passare delle ore, come farfalle. Ma dove si sono posate lasciano solchi e ferite aperte. Così le carezze.
La pelle è un campo di battaglia, sufficientemente lacero da sembrare ustionato anche ad inverno fatto.
Cancellare le cose belle quando si presentano perchè la loro assenza non possa bruciare.
Dimenticare.
E infine dimenticare di aver dimenticato.

sabato 28 novembre 2009

non so fare silenzio. mi senti?

Ti voglio bene

Parole troppo abusate.
Perchè il bisogno di specificare?

Il mio tono di voce già te lo dice, e le mie attenzioni.
Per te (o con te?) tiro fuori il mio tono migliore, quello che sa di sole e margherite a marzo, e ti faccio ridere. Voglio che tutto il tuo viso si distenda e continui a sorridere, fino alle orecchie. Per te dipingo il mondo a colori di cera.


Rewind
E il film torna indietro.
Tornando dal mare una volta mi hai detto che ti piaceva che mi addormentassi. A te piaceva guidare in silenzio, io mi accoccolavo sul sedile e il sobbalzare della macchina mi cullava subito, crollavo addormentata. E' che ti dava sicurezza, vero? Quel senso di forza buona che viene quando senti che qualcuno ti si sta affidando, che non teme nulla e allora può sprofondare nel sonno sapendo che a fianco c'è qualcuno che veglia.

Stop
E ora ti immagino nelle strade strette su e giù tra la città e il mare, e ti vedo scorrere gli ulivi intorno riflessi nelle pupille nere, nell'iride così mischiata che a volte non saprei dire di che colore hai gli occhi.
Chissà se piove anche lì, oppure se sopra di te hai un cielo a stelle. Lì dovresti vederle bene, la città con le sue luci è lontana ormai.

Cambio piano
Stavolta la pioggia è qualcosa a cui dare il benvenuto, nonostante le manopole della bicicletta piene d'acqua e le cosce ancora fredde, che d'acqua si sono impregnate, la parte del corpo più esposta. Peccato gli occhi, che non possono immergersi nelle gocce e sono costretti a guardare a terra. E' pioggia che fa bene questa, lava il viso come una carezza.


Parole sbagliate

parole come catene . parole-verità da non dire . parole stucchevoli come rose a macerare . parole legacci . parole insicure . parole che parlano di parole mancate

Parole di troppo


Parole ripetute a colmare silenzi e vuoti, a trasformarsi in echi per sentirsi meno soli.
Parole forse per dire ciò che si vorrebbe sentire.


Ti voglio bene
Certe cose dovrebbero rimanere implicite, semplicemente sentite.

mercoledì 25 novembre 2009

pianti sbagliati

I dolori piccoli non riescono a uscire da soli, come se avessero bisogno che uno strofinaccio bagnato si andasse a intingere in loro. Così, scorrendo su per le fibre, anche quel piccolo rumore sordo che non si capisce bene inizia a stillare, goccia dopo goccia, finchè tutta la stoffa non ne è tinta. Allora può cominciare a finire a terra.


Nervosamente, all'inizio è il ticchettio di un piede che tamburella a terra, perchè il corpo trema e non sa dove far uscire tutto. O come. Poi le gocce cadono ovattate sui vestiti, piccoli aloni scuri che si allargano subito. E finalmente i due dolori si uniscono.

Sono a un funerale piangendo il morto sbagliato, urlando dentro per chi non lo è ancora, non per qualche ora, qualche giorno forse...

Piango per la me bambina che vede portarsi via il primo e più caro idolo, che vedermi addosso il suo sorriso mi faceva brillare gli occhi. Me piccola a scorrazzare per il gompa dal parquet di legno chiaro, i cuscini bassi quadrati color magenta e ocra. Cavalieri delle stelle, così noi piccolini eravamo stati chiamati, nella richiesta di sorvegliare la foresta, di guardare su di essa. Alle maglie avevamo appuntato un cielo fatto di nuvole e stelle.

Piango più per chi c'è ancora che per chi stamattina si è trovato addosso la terra smossa fradicia di nebbia, sotto un cielo che non concede sole.
Ma per chi non c'è mai stato le lacrime non riescono a scendere.

Restano ricordi senza voci con cui visitarli, e già si sbiadiscono. Non ho una voce da ricordare, o una parola per tirarla fuori da un archivio che già sembra diventato troppo vecchio.

Due pezzi di storia lì per andar via, morti mischiate e un dolore piccolo che si appoggia all'altro, e cava il fiato e uccide gli occhi.

E una volta di più le cose non succedono senza riti a trattenerle. Scivolano via, come un respiro.

giovedì 1 ottobre 2009

sorriso di sale

Quante corazze addosso, e quante da lasciare andare se nemmeno un sorriso riesce ad uscire come acqua fresca ma dev'essere contratto e bloccato dal volto, volto che ha meno gesti a disposizione di quanti potrebbe.
La voce esce schermata, portando ruggine con sè ad appesantirla e invecchiata ancora prima di dirsi. Sono parole che hanno voglia di dirsi, parole che premono. Parole che premono così tanto da rimanere bloccate nel petto.
Sorrisi e gesti di cura che non sono per me mi vengono donati come tante fotografie impacchettate in carta di riso colorata. Le guardo con gli occhi un poco lucidi, restando in ombra e sbirciando altre vite attraverso vetri smerigliati.
Ma non sono per me nè mie, e la mia bocca diventa un sorriso di sale, disciolto dagli occhi.

domenica 27 settembre 2009

di chiese silenziose e d'aria gravida

Rivoluzioni silenziose.
Quanto mai interne e discrete si palesano senza fare rumore nè squilli di tromba. Non ci sono nemici da abbattere nè rese da trattare, semplicemente avvengono, normali quanto un respiro.

Suona un violino, e la mia camera profuma ad entrare di bucato steso ad asciugare, sapone misto ad aria. Ho comprato un ciclamino rosso-fucsia, così quando guardo fuori dalla finestra incrocio i suoi fiori accesi ai semi rossi della magnolia, racchiusi in quei bozzoli scuri che sono i suoi frutti.

Lunedì sono finite le danze e le storie, notti di poco sonno passate a sentirsi narrare favole e leggende, poi parole belle per riascoltare e ritrovare parti di me che avevo perso e dimenticato lungo la strada.

Anche Roma può essere silenziosa talvolta, nel cortile interno di una basilica, lasciata al buio col cielo blu e nuvole rasate. L'erba bagna i piedi scoperti, umida di pioggia e di notte in arrivo. Intorno due filari di vigne, odore di uva fragola a impregnare l'aria, a renderla gravida in suolo consacrato. I chicchi morbidi e tesi cercati al buio, spremuti nella bocca con la punta delle dita.


Rifaccio l'errore di immaginare inesistenti in un futuro prossimo da plasmarvi addosso, quasi fossero veri.
Ma un po' respiro casa, mi regalo fiori e faccio il pane per svegliarmi con l'odore caldo che invade casa e avere la mollica morbida ancora tiepida in bocca.
Provare a prendersi cura di sè, finchè dura...

martedì 15 settembre 2009

la bellezza è semplice

Vorrei silenzio, e la tv invece ammorba l'aria e non mi fa pensare, trascinandomi via nel suo vociare.
Mi si chiudono gli occhi, pesanti per lacrime e abbracci, la fronte aggrottata a trattenere l'acqua piovana di occhi che piangono all'ingiù; piango per altri, piango di tutto e di niente, piango di un sottotetto troppo bello per essere vuoto.

Centro sociale alla periferia di Roma, un vecchio casale raggiunto da strade sterrate che intorno hanno solo campi. Lontano, il cielo si apre e le nuvole salgono, il sole comincia a scendere e tutto si tinge di rosa e d'oro fuso: alberi, erba, vallate, casolari lontani...
La pioggia della mattina ha reso il terreno scivoloso, fango grigio, ma superata la sbarra d'entrata si apre una distesa d'erba di verde nuovo che riflette il cielo ormai chiaro e c'è una casupola, luci accese dentro e fuori decine e decine di piccole scarpe di tutti i colori: bambini scalzi e sospesi in aria, lì a giocare a fare gli acrobati sui fili tirati ai due capi della struttura, a giocare e basta, a ridere senza peso.

Il prato procede in un saliscendi fatto di declivi leggeri, e appena girato intorno al casale il cielo è invaso di centinaia di palline colorate che si rincorrono in aria; subito sotto, sguardi presi e sorrisi aperti.

Alcuni sorrisi non hanno ostacoli, e nonostante possa esplodere il mondo interno senza rumore gli occhi prendono la volta del cielo e il sorriso si apre per non lasciare nulla indietro.
Non sappiamo chi siamo, ma gli occhi sorridono aperti e non c'è più nulla da chiedere.



Musica leggera tra il dolce e il malinconico, e una candela accesa che come vela ti trascina via, con il vento piovoso a gonfiare le tele bianche, tracce di salsedine a specchiare l'acqua che cade mentre la pioggia lava il sale e diventa pianto.

La fiamma trema e la luce sobbalza, i miei ricordi sono serbati in una busta di carta di cotone con un loto impresso a sbalzo su un lato; da oggi accolgono anche un pezzetto di metallo. Foto, disegni, piume... e un centesimo rosso attaccato a una calamita al contrario, che non riesce ad attraversarlo.
I centesimi caduti non vanno raccolti, così che qualcuno possa trovarli; un po' come è per i quadrifogli, che vanno donati perchè portino fortuna.
Due palline da giocoliere arancioni restano silenziose sulla poltrona dai soli blu. Lì ferme a sporcarsi dell'ultimo sole prima che l'autunno arrivi davvero, prima che sia notte.
Le cose capitano, ma i semi vanno piantati. Occhi vigili per sapere vedere la terra smuoversi, per aiutarli a bucare il suolo e germogliare.

Continua a piovere su Roma e il buio si schiarisce da tanta è l'acqua che viene giù.
Rinata. Morta e rinata insieme.
Di colpo ritrovo cos'ho perso, lo ricordo e scopro specchiandomi in un sorriso che mi guarda. Mi basta, senza altro; è tutto lì. E gli occhi si riempiono di lontananza...
La bellezza è semplice, basta a se stessa. Non ha bisogno d'altro, nè di giravolte nè di maschere; non ha bisogno di dipingersi per altro perchè già bella così com'è.
E' come se avessi ritrovato di colpo una vecchia scatola di latta piena delle fotografie che una volta sono stata io a dipingere mettendo in posa le cose. Le dita sono sporche di polvere e le caramelle messe via un tempo si sono appiccicate alla carta e non sono più buone. Ma resteranno sul fondo, lì al buio aspettando che arrivi il momento di gettarle; ancora no, che restano troppe foto e troppi disegni di cui ancora non riesco a scordarmi.
Capita spesso che mi scordi di me, seguendo immaginari che non sono i miei e smarrendomi per strada. Ma l'altro ieri ho fatto il pane e sul tavolo della cucina le pesche si stanno macerando nello zucchero e domani casa odorerà di marmellata, succo di limone e un tocco di zenzero a profumarla.

Non ho intenzione di richiudere la scatola, non tanto presto. E quelle foto vegliano i miei sogni, sono me quando mi permetto di essere loro.
Rinata, morta e rinata ancora. Ora c'è da prendere matite e fogli e cominciare a disegnare.
Niente è cambiato in fondo, ma i miei occhi sono un po' più schiusi; o forse semplicemente non sono aggrottati e a volte tendono in alto.
Stanotte non sono sola, che ho la pioggia a cullarmi...

domenica 6 settembre 2009

trine di ferro e monete d'ottone

Mercatino d'inizio mese, mobili pieni di polvere e fiori di lavanda e argenti maculati di nero a trasportare indietro.
Tira vento, se le tende e i gazebo bianchi non fossero arpionati alle cassepanche di legno massiccio finirebbero per ribaltarsi, trascinando con sè tutti i ninnoli di ceramica e i macinini da caffè.
Pesi ricolmi di tempo trattengono a terra un passato che volentieri se ne volerebbe via; qua e là compaiono manichini in ferro battuto, corpi di donna svuotati e ricamati in trine di metallo azzurro che restano lì a ballare con le nuvole scure precipitate a terra.

Non scrivo mai nulla di vero. E non invento niente.
Simulo, simulo e rivesto, do altri volti e nomi. E tutto rimane fermo, irriconoscibile al punto che spesso nemmeno io mi ritrovo più. Ogni cosa e ogni volto sono mascherati e coperti con pitture strane, sculture in cartapesta e piume di pavone.
Sfinge o oracolo ubriaco da pagare con monete d'ottone, parlo per enigmi che spesso non so più nemmeno da dove fossero partiti. Sono solo parole in fondo, parole che si rincorrono per fare in modo di non ricordare fingendo di farlo; parole per sommergere ciò che potrebbe emergere prima ancora che questo possa farlo, prima ancora che possa prendere anche solo una boccata d'aria.
E poi mi meraviglio di restare in apnea...

venerdì 4 settembre 2009

anche le città a volte sognano

E' finito agosto, e l'aria di notte è già più fresca, colpi di vento che vanno a ricordare alla pelle dove comincia e dove finisce, a rammentare della propria forma.
Sembra quasi mattino, un mattino in cui il nero ha già lasciato posto al blu del primo giorno, chiaro, quasi luminoso, dice. Non è mattino invece, ed è un tempo sospeso che sa da notte insonne. Gli uccelli non cinguettano, non si chiamano nè rispondono da un capo all'altro della strada. Al più restano i grilli, racchiusi nel vuoto delle grondaie per canti aciduli che vibrano e risuonano lontani.

Sono passati musicisti e attori per le strade, mimi dal naso rosso e fisarmoniche per tanghi violenti da cui farsi portar via.
E tornare a casa la sera è trovare la città un po' cambiata, senza più nulla dei colori del giorno che la fanno risuonare a festa. Le strade smettono di suonare ai colpi di grancassa, i violini sono stati portati via e non ci sono più tappeti nè cappelli a raccogliere monete. Non ci sono nemmeno più palloncini nè trampoli, e tutto resta in silenzio. Sì, un po' più in là si suona ancora, ma bastano poche centinaia di metri e tutto si assopisce, entra nel sonno profondo delle giornate troppo colme.
La città si è fatta cambiare in questi giorni, anche se non se ne accorge o finge di non saperlo.


Rotonda ovale, un arco per entrarvi e un altro per uscirvi; lì, seduti a terra, un ragazzo e una ragazza a gambe incrociate parlano nel sonno circostante e nei residui di festa. Il castello li guarda muto, e nel suo rigore di sempre vigila e non dà voce, forse nemmeno pensa più ormai.
Passa un giorno e anche la notte fa il suo corso, ed è di nuovo la rotonda ovale tornando verso casa.
Stavolta non ci sono parole, ma giravolte e strette di una coppia che balla senza musica, per ballare ancora dopo aver danzato tutto il giorno, finalmente in silenzio con un palco inventato a bella posta solo per loro, solo per quella notte.

Agosto è finito, e mi mancherà il suono dei bracciali d'argento sui polsi mentre torno verso casa, lì a tintinnare ad ogni ammaccatura della strada. La catena della bicicletta picchia in qualche punto, ma è chiusa e non riesco a metterci mano per aggiustarla; non ho nemmeno tempo per portarla da qualcuno, e l'ultimo vecchietto che ne conosceva la meccanica ha chiuso bottega. No bici mia, tranquilla, non ti porto più da gente che non sa trattarti; ti meriti dita d'oro.
Facciamo un bel suono insieme, io coi miei bracciali d'argento russo e la catena a mettere il ritmo; concertino a percussioni per argento, acciaio e ferro. E passiamo veloci tra i sonni altrui, tra le strade vuote e l'aria umida mentre torniamo a casa.

Il cielo è sempre più chiaro, vorrei sprofondare tra lenzuola blu senza sogni, un unico e profondo sonno senza pensieri. E che domani fosse nuovo.
Dovrei dormire a testa in giù per potermi addormentare guardando la luna...
Luna bianca per sogni tondi e senza peso. Tic, tac, tic, tac... passi sui ciottoli che giocano con loro stessi. Ogni tanto mi reinvento.

martedì 25 agosto 2009

cortocircuito

Qualcosa si spezza dentro, perchè certe cose non dovrebbero toccarsi e invece collassano l'una sull'altra, e c'è un piccolo squarcio scuro inciso dentro lo sterno. Ma a volte capita, e mentre si fondono si fa una giravolta su se stessi e si finisce come fiori capovolti, con le radici per aria e la corolla sporca di terra, senza sapere più come raddrizzarsi. E ti chiedi se riuscirai a rimettere le cose a posto, a separarle.


Cortocircuiti.

Sono luoghi per i quali non puoi passare e voci e sguardi che non riesci a incrociare perchè ti portano a spasso per mondi nei quali un solo passo è una scottatura violenta, da rifuggire, da non pensare.

E' sentirsi dire ti voglio bene e al mattino doversi nascondere. E allora quel ti voglio bene si fonde all'essere qualcosa di cui sentirsi a disagio, e qualcosa dentro si lacera. Scopri di colpo quando tutto è cominciato e come un filo si annodi all'altro, ed è davvero passato troppo tempo.

E' rendersi conto che nessuno è lì per cullarti tra le braccia, anche quando sei tu a donarti. E' la bellezza del darti... mentre scopri che quel desiderio che vorresti ti accarezzasse non è mai uscito da chi l'ha formulato, chiuso in se stesso anche nell'ultimo orgasmo.

Di quando ti tagli e ferisci perchè ormai è troppo tardi per ricacciare tutto dentro, e l'unica soluzione che sai inventare è quella d'incidere il corpo, lacerandoti sola.

Di dovere ancora sentirti in colpa per avere amato.

Nel non avere più energie da spendere per qualcuno di caro, e invece di tessere fili per tenersi legati ci si lascia andare.

Nel sapere che sono state anche le tue scelte a far sì che una persona amata si rincantucciasse in un angolo scuro. Nel non essertene resa conto. Nel volere tornare indietro per prendere scelte diverse e sapere di non poterci fare nulla, perchè è una vita così lontana che non puoi più toccarla. E invece vorresti solo donargli un pezzo della tua, per chiedere scusa, per rimediare, per non svegliarti più ad ogni battito di palpebre coi sensi di colpa.

Del non lasciarti andare, che hai troppa paura di scoprire quanto nero o polveroso sia ciò che tieni ben sepolto a fondo. E per paura di scoprirlo scegli di vivere solo a metà.

Del tenerti lontana dalle persone più care, perchè sai di essere soffocante nel tuo aver bisogno di loro, e per non perderle ti allontani da sola.

Del camminare senza rumore e dell'aver paura di essere invisibile, inutilmente trasparente. E scopri che anche chi si dice caro non ti cerca, in quel silenzio che ti dice che sei sufficientemente inutile o superflua da poter essere ignorata, da non meritare parole.


Cortocircuiti. Del pensare che sia normale che se ami distruggi, che quando ti doni chi prende ti usa e non dà, che un amico non ti abbracci, che quando piangi o quando ridi non ci sia nessuno a tenerti stretta ma ti devi cullare da sola.

domenica 23 agosto 2009

almost blue

Pagine piene di sabbia e un pennino seccato dal mare
Cresci bambina, svegliati
che fai solo incubi che scambi per sogni belli

Hai collezionato zucchero e bastoncini di cannella
e ora vorresti frantumare il legno tra i palmi delle mani
E' giornata di vento oggi, e l'aria disperde la polvere senza grazia
senza diventare più dolce

Inutili gesti di cura
Lacrime blu di una lucciola triste

Non puoi ricevere nulla se domandi troppo poco
e tu non hai ancora imparato a chiedere
Nemmeno a te

venerdì 7 agosto 2009

cartoline

Lasciare Lisbona alle spalle per tornarci in un colpo d'occhi voltando la testa quasi di sfuggita, per non indugiarci troppo. E di nuovo trovarla lì, a carezzare il collo come una sciarpa di cotone grosso dai fili crudi e dal tocco irregolare, a lasciare passare l'aria.
Il vento soffia forte a Lisbona, e porta tracce di sale con sè; risale le strade acciottolate di bianchi e neri lucidi che specchiano il cielo, con le nuvole basse a far da scia e a riflettere la città sopra le nostre teste in tratti d'azzurro capovolti.
Passi su passi l'hanno lisciata e lucidata, Lisbona, mentre le mattonelle ritengono gli occhi tra bianchi, azzurri, verdi, gialli e viola; si ascoltano viaggi trattenuti in un respiro che non c'è, ammutolito e disperso tra salite e discese.
Si sale, si sale, e talvolta lo si fa a piedi nudi e le scarpe in mano, con le braccia aperte in un principio di volo, con le piante a trattenere al suolo e le dita a puntare al cielo.
Si sale, si sale, e si arriva in alto, tra le pietre scure a chiudere di fresco il castello, e fermarsi con la schiena appoggiata al tronco di un ulivo sottile cresciuto in una manciata di terra, nodoso e inviluppato su se stesso a invocare con i rami il cielo mentre le radici stringono patti di terra.
Lo sguardo si perde e apre tra le stradine strette, e incontra il Tejo, fiume che sa di sale e sembra un mare, mentre gli azzurri sembrano non finire mai.
All'andata riceviamo il benvenuto da fiori blu cobalto, schizzi vividi su un muro di sabbia; ma al ritorno è come se nel calore del giorno avessero dovuto cedere all'aria i loro toni più carichi, e mentre il blu è andato ad incupire il cielo preparandolo per la sera ecco che sui petali è rimasto un viola purpureo che quasi non conosce più acqua.
Lungo la via ci adottano persone gentili, dialogando in bizzarri esperanti o più improbabili gramlot, reinventandoci artisti e saltimbanchi gli uni per gli altri, senza un pubblico che non sia quello che di volta in volta prende parte e crea la scena.
Ogni tanto quelle macchie gialle che sono i tram si inerpicano per la china, sbuffando fatica nel rumore delle rotaie; i fili in alto incorniciano leggeri la città come una ragnatela sottile e cupa.
La terra sa di cannella e ne porta il colore, gialli asciutti e secchi che si mutano nell'ossido scuro del ferro, rosso sbiadito che si disperde polveroso tra cespugli e cielo spento.
L'oceano oggi non ha onde, ma le scogliere incuneano il vento e la poca aria che c'è gonfia i vestiti come mongolfiere. Il sole si appoggia alle pietre per riposarsi del mare.

domenica 2 agosto 2009

tra i fili d'erba

Farfalle appollaiate sui fiori di lavanda, bianco leggero assolutamente fragile che sussulta e trema mentre il vento oscilla come un respiro eccitato.
Risate da mattino fresco con ancora la rugiada in bocca.

Intorno le montagne accolgono tonde la vallata, con i loro lastroni di roccia chiara venati di scuro, linee che stillano gocce di siero sulla linea d'orizzonte.
Alle spalle un giardino muto di pietre e rami, senz'acqua che non piove da tanto; i sassi salgono in nuvole calde nell'aria d'intorno, vibrando lenti come un sogno appannato.

I grilli cuciono insieme le cose, come fossero una maglia, una trama leggera a trattenere e legare momenti e pensieri. Nulla si perde, e tutto è legato e tenuto sospeso a un filo leggero, briglia di seta che annoda ma non stringe, non ingabbia e arriva al cielo.

Sulla cenere chiara ancora pulsa un tocco di legno vivo, cuore sporcato di nero che dopo la notte continua a respirare fumo, bruciando lento dentro senza che si possano vedere fiamme o braci accese.
La cenere è impalpabile, una carezza morbida a insinuarsi tra dita e pensieri, con un soffio dispersa in aria.
Me ne vado anch'io, con una folata di vento.

mercoledì 15 luglio 2009

odore-di-vento

Il sole batte sul balcone e le palme si scuotono forte. I gabbiani sono lì a ferire il cielo di continuo, a impedire all'estate di essere silenziosa, di incedere al ritmo d'altalena delle voci dei grilli, un andare e venire quasi ipnotico.

Musica per cadere addormentati.
I miei sogni stanno disimparando a essere inclementi.
Non mi lasciano col sorriso al risveglio e ancora mi inseguono a passo serrato tra vicoli in ombra. Ma non fanno più male, o non così tanto. L'ombra è del sole che manca.
L'aria è velata, ma le lenzuola stese tra i balconi di un passage per un attimo bevono azzurro e fanno scomparire il cielo. Stanotte me lo restituiranno, che il sole le ha cotte e il vento ha giocato con gli sbuffi di cotone come stesse ridendo di una girandola che non finisce più di girare.
Stanotte vorrei sogni dall'odore di vento.

Vorrei poter salutare i miei fantasmi con voce amica, senza rimproverarmi nulla, senza aver bisogno di chiedere nulla.
Giusto un sorriso a dire siete i benvenuti, per voi non ho occhi tristi.
Aprire il cassetto di legno pesante, raccogliere in mano le fruste e riporle con cura, adagiate a morire nel buio del legno. E con loro metter via parole tristi ricamate su foglietti di carta, dispersi in giro come foglie secche. Grandi meno di un palmo, potrei seguirne le linee stropicciate per piegarli in origami.

Respiro, quasi fino in fondo.
C'è ancora un grumo di polvere a sporcare l'aria; giù, quasi sotto lo sterno, al suo limite. Ma alla fine l'aria entra, e io so farle spazio.

Voglia di uscire, col cielo azzurro fuori e la magnolia che gioca con le ombre cinesi sui muri gialli della mia stanza, filtrando il giorno.
Voglia di gettarmi su un prato ad annusare l'erba, sentire tra le dita l'umido e il bagnato, la rugosità di grana delle foglie, la carnosità fragile dei fiori che sviene col calore di un tocco.
Notte e stelle, per passeggiare nel buio e fermarmi ad ogni siepe di gelsomino, e coglierne uno e infilarlo tra i capelli. E uno, e uno... E uno ancora da tenere in mano.
Ti ho salutato, luna, quando sei stata piena. Sono venuta a trovarti, camminando per le strade di casa, che da qui i tuoi raggi non mi possono toccare.
Non posso mancare, lo sai, e sia pure per un attimo ti guardo il viso. Quando non riesco a venire da te mi sembra di stare tradendo un amante.

Gli amanti vanno tenuti al limite del desiderio, ma poi va varcato.

E nonostante tutto il petto fa un tonfo sordo, come fosse compresso.
Le lenzuola stese col loro odore di vento, i gelsomini e le bouganville, la notte e le ombre cinesi che mimano nella mia stanza luminarie in festa appese a pergole ricoperte di foglie.
Bisogno di lasciarsi commuovere dalle cose...
e tutto resta compresso, lì senza potersi dire.
Ossimoro acido come i silenzi che frastagliano i miei colori. Miei perchè me ne sono impossessata, li ho collezionati uno per uno.
Ma scordo le parole da raccontare, che senza più modo di intesserle dimentico che una volta c'era una storia.

Ecco, se i miei sogni stanotte volessero cucirmisi addosso dovrebbero filare un prato e poi fissarlo al telaio per ricamarvi sopra margherite dai petali bianchi, come fossero nuvola, oppure un respiro.
Mi ci distenderei in mezzo, a guardare il cielo tra i coni d'ombra delle dita a schermare il sole.
Un campo di margherite per rotolarmici aggrappata a un paio d'occhi, e l'erba morbida e i fiori a solleticare la pelle come una carezza sui capelli, la stessa delicatezza e cura.
Alla forza ci penso io, tu non ti preoccupare prato. Almeno gli occhi spero sapranno ricordarla, come il respiro.
Sai che puoi fare, sogno, per concludere l'opera?
Fai in modo che esca da te senza rimpianti, fammi entrare nel mattino con un respiro leggero. Lasciami una sensazione d'abbraccio anche quando mi sarò svegliata.
E' triste entrare nel giorno da soli...

buonaNotte, e poi buonGiorno.

martedì 7 luglio 2009

luna d'argento

Mi lecco la pelle per sentire che sapore ha, che infine non ho a chi domandarlo.

Il cielo matura di indaco spento, dalla strada si srotola un fiume che arriva a toccare fin quasi le pareti di casa. Non è estate se non c'è silenzio, e stanotte non si riesce nemmeno a sentire la voce dei grilli.
Blu chiaro e sbuffi di cotone rosa, nuvole imbevute dal basso d'arancio a tingere il cielo. Indaco spento.

Stanotte terrò le finestre aperte sperando che la luna mi voglia comunque visitare, anche se io non l'avrò cercata.
In questa casa nessuna finestra si affaccia sul versante giusto e il vento non spira in direzione di cielo.

Non ho pelli da immaginarmi nei sogni, non ho occhi nè voci da dipingermi addosso.
Per un po' non giocherò più con me, dita abbandonate sul bordo del letto come burattini mancati senza voci a tenderne i fili.

Misuro il tempo in archi di luna, ancorando gli istanti ai tagli sulla sua superficie riflessa.
Ogni volta spero di trovarmi immersa nel buio, quel buio chiaro di una luna che nasconde le stelle; ma questa è un'altra storia.
Ogni volta trovo un vetro a separare pelle e cielo. E nessuno a cui chiedere portami a vedere la luna.

Cullami luna, come facevi quando ero piccola.
Cullami silenziosa, anche se non hai braccia per farlo.

giovedì 2 luglio 2009

senz'aria

Pagine aperte, come foglie secche lasciate ad asciugare all'aria delle gocce d'acqua assorbite la notte. L'inchiostro si è sciolto e ha attraversato i fogli di carta, uno dopo l'altro a confondere parole e pensieri, accartocciando e schiacciando il tempo su di sè.
Una notte a contenere anni interi.

E' già arrivato luglio, l'estate, e io sono ferma, qui a scrivere al buio col pennino che si confonde con la carta, entrambi macchiati di rosa, luce tenue a scontrarsi con me.
Resto vigile senza vivermi e reimparo ad uccidermi lenta. Riconosco i gesti e i modi come vecchi ospiti dai modi affabili ed accondiscendenti. So dove andare a stringere le dita perchè sulla gola non restino segni.

Come facevo a respirare?
L'aria entra quel minimo indispensabile a sopravvivere e tutti gli altri gesti, ogni movimento inconsulto o istinto più vitale, diventano solo pugni tirati contro lo sterno, dal di dentro.

Ritorno indietro di anni, a quando mi toglievo l'aria per non impazzire, per non sentire tutto quel nero che mi sommergeva entrare anche dentro di me.
Chiudo la bocca a scatti, come se tutta l'aria d'intorno si fosse prosciugata e non mi restasse che inghiottire il vuoto.
Una pietra grigia e ruvida pulsa dentro lo sterno, ogni tentativo di prendere dentro più aria è una fitta livida.

Giusto mi consento di sopravvivere e mi uccido lenta.
Nessun segno a tradire, tranne gli occhi che sfuggono per non guardare, per non lasciarsi vedere, obliqui e tristi. E un respiro a bocca aperta per racimolare parti d'aria.
So che mi riduco allo stremo perchè è il prezzo che il mio corpo esige per consentirmi di respirare ancora.

Niente più aria, e un grumo scuro a fermare sul nascere ogni tentativo di respiro.

lunedì 29 giugno 2009

acrobati e fili bianchi tra le cime degli alberi

...e gli alberi crescono sempre sul filo delle colline, curva morbida a sfiorare il cielo.

Volta la pagina, un foglio bianco va lasciato per cominciare da nuovo, punte di silenzio a sfumare tra due bordi, due confini.
Stiamo ancora a metà, a giocare di noi, sospesi in punta di piedi sul filo di cotone bianco che lega le pagine. In fondo siamo sempre stati degli acrobati, in evoluzioni sospese in trame un poco oniriche.

Malinconia triste di un treno che parte e si allontana, mentre il sole spacca in due le nuvole grigie e affonda i raggi intorno agli alberi, silhouette scure a ricamarmi la notte che viene.

Le parole escono di bocca senza pensarci, mentre torno a casa a piedi dalla stazione per cercare di respirare la notte, con le nuvole cupe che incombono sulle case a schiacciarle a terra.
E' un filo che esce di gola e si snoda insieme a me per le strade, come un monito a cercare solo parole che si prendano cura di me, di quel che sono.



Dovremmo avere solo parole d'amore per le persone a cui vogliamo bene, per prendercene cura.
Non dirmi parole che non siano di cura. Sai che farò lo stesso con te.

I ricordi restano sulla punta delle dita e la mia pelle è ancora una traccia che per stanotte inspirerò lenta.
In gola sento ancora il sapore dei kumquat.

mercoledì 10 giugno 2009

di sbuffi bianchi e grani scuri

In treno.
La penna sfuggirà al controllo questa volta, e i sobbalzi tra un pezzo di ferro e l'altro fanno andare a singhiozzo anche me.
Il tempo scorre e non faccio nulla per fermarlo, lo lascio andare perchè intervenire si può fare solo a volte, solo quando cambia qualcosa.
Non di nuovo, non più. Ora il tempo deve solo scorrere e portarsi via la malinconia degli occhi.

Passano i casolari in mattoni di cotto, la terra toscana sa di rosso bruciato e profuma di pino e d'alloro, con la punta delle dita macchiata di nero come la cenere sui gusci lisci dei pinoli appena raccolti.

Lascio andare il tempo senza immergermici, senza volergli parlare.
Indugio, i pensieri vanno a rilento. La mano e gli occhi ritratti hanno lasciato nell'aria una scia di vuoto.

Per legarsi servono gesti di cura. Sono stati scordati da tempo.

Continuano i campi che iniziano a sapere d'estate.
Io mi faccio fredda e inizio a macinare i ricordi come farina.

Tra gli incavi della macina restano le scorze ruvide e scure, tutti i no che sono cresciuti insieme al grano e che ora spiccano impietosi sulla pietra bianca come piccole schegge nere.
Tutto sfuma nella nuvola di farina che si solleva in aria in sbuffi e volute.
Quei grani neri restano sugli occhi a trapuntare lo sguardo come un arazzo, macchie scure di quando si fissa troppo il sole.

mercoledì 3 giugno 2009

strade di casa

Rimando istantanee collezionate durante il giorno, rischiando di perderle come stampe a caldo in cui il nero scompare e resta solo una traccia sbiadita.


Ogni volta che torno a casa sono i gelsomini a salutare, avvolgenti, odore tondo e leggero al tempo stesso, come non sapesse come conciliare le note troppo dolci con il bianco sospeso a tratti nello scuro dell'ombra.
Per terra i fiori caduti e già troppo calpestati restano orme bianche adese al suolo, tocchi lievi ad accarezzare un asfalto troppo ostile.

La pioggia acuisce gli odori e un solo albero d'alloro si spande intorno come fosse foresta intera, quasi che una stilla concentratissima di profumo fosse stata disciolta nelle gocce che cadono dal cielo.
Per una volta la città odora di sottobosco.

La sera, verso le 8, il sole irradia tutto come una fiamma dal colore tiepido, e le cose iniziano a sussultare, come a ritmo, lento, quello di un petto che cresce e cala nel saliscendi del respiro.
Le Terme di Caracalla si riempiono d'aria e il colore dei mattoni diventa un tutt'uno con quello dei pini marittimi, fieri, alti ad entrare nel cielo e scalfire l'azzurro. E' tutto tinto di rossastro, con le ombre che puntano al grigio e s'insinuano e allungano negli interstizi. Crepe di mattone o scorze d'albero sono lo stesso.

I fiori di magnolia si vedono di lontano. Un butto ci mette molto a ingrossarsi, affusolato in cima e gonfio e pieno in base. Sboccia e i petali in bianchi danno luce alle foglie, lasciano respirare la loro lentezza.
Il giorno dopo sono già bruciati, i petali esposti al calore del sole accartocciati come frammenti di carta bruciata.

Certi luoghi raccontano storie già dal nome.
Le Gole dell'Alcantara sembrano raccontare che a perdersi negli anfratti di roccia l'acqua si metterà a trillare acuta, come tanti campanelli scossi dalla spuma. O forse è un canto talmente leggero che si finisce a scambiarlo per un brusio, talvolta un respiro.
Stella Polare non ha nulla della lucentezza artica, e la sabbia grigia scotta a camminarci. Però ha una lucentezza da luna al suo sorgere in certi momenti, di quando ancora all'orizzonte diventa giallorosa, grande e calda e non astro freddo sospeso in un cielo troppo scuro.
Più in là della spiaggia ci sono nuvole d'oro opaco, spighe che frusciano una sull'altra come fossero nebbia. Vibrano, e troppo sottili scompongono l'aria in una nuvola di sabbia impalpabile. Alla base, tra l'erba già bruciata, fiori viola cupo sono tocchi intensi che riportano le spighe a terra. Mischiate a loro le trattengono al suolo, per carezzare la terra e bisbigliarle leggere.

martedì 26 maggio 2009

senza rumore

L'inchiostro sta per finire, la pagina anche, e avrei preferito l'incertezza di linee appena intraviste per guardarmi stanotte. Invece devo cercare spazio tra questi segni ingombranti, troppo pesanti.

Mi spoglio davanti allo specchio che punta la porta, il letto appena di sbieco compare solo a prestarci attenzione, intenzione.
Certe cose vanno cercate.
E altre volte le luci vanno spente per non vedere.

Mi punto le luci addosso, impietose, e da sola mi fascio di luce troppo forte, diretta, a sbiancare la pelle.
No, non sono io quella.
E' sempre così.
La mia immagine, quella che sono convinta di mostrare al mondo, non è quella che la parete lucida mi rimanda dal fondo della stanza.
No, non sono così. Non sono così.

Lenti gli occhi, le mani a tentare di modellare e piegare, come potessi essere un pezzo di creta facile da plasmare con una pressione del palmo.

Resto accucciata sul letto per un po', accesa è rimasta solo la lampada di sale sul tavolino basso di legno.
Intorno ho solo aria, e la mia pelle non si riesce a scaldare.
Senza altri contatti mi sembra di esistere un po' meno.

Da piccola ho deciso di imparare a camminare senza fare rumore...

venerdì 22 maggio 2009

amaro in gola

Non voglio affrontare i pensieri, che ora arrivano col tono stridulo di un uccello che canta di notte. Ma in fondo hanno diritto di esistenza anche loro, per quanto privi della leggereza che persino questo stridore si porta dietro in voli d'aria.

Inizia a tornare la voglia di fuggire, di lasciare di nuovo l'ennesimo luogo, prima ancora che possa essere chiamato casa.
La città non mi appartiene fino in fondo, non è il mio tempo da plasmare con gli zuccherini appoggiati sugli occhi.
Tempo squallido e triste come un orso di stoffa con l'imbottitura riversata, appeso di sbieco a un palo come benvenuto.

Vorrei un albero a cui appoggiare la schiena, mentre il respiro cambia e si allenta cercando un tempo comune.
Dalla mia bocca escono foglie, verde nuovo che sui polpastrelli sa di bagnato, carezza morbida.

la mia voce sa di malinconia

lunedì 18 maggio 2009

ritagli di sonno su un fondo carta zucchero

Mi sveglio troppo spesso con gli incubi addosso, il corpo bloccato in posizioni innaturali, scolpito di sabbia in altre vite, sempre mie.
Circondata da ombre che vorrei riuscire a consegnare al passato mentre continuano a farmi visita, sbattendomi in faccia la mia incapacità di vedere.
Scelgo scenari squallidi, per lo più decadenti, marci. Mi faccio dire da altri quello che non voglio dirmi da sola, scelgo parole per ferirmi al di là di ogni possibile ritorno.

Le paure si squamano lungo stradine di paese
tra cemento e intonaci seccati dal sole
senza più toni, che l'arido li ha prosciugati.
Una porta di legno verde scuro
anche quella squamata come strade e paure,
e un gradino di pietra rialzata.
E' un passo da folletto, con gli occhi intensi e i capelli scuri
beffardo, come sempre.
Ma stavolta i miei incubi provano gusto
ricordando come si sia disintegrato
in un ghigno che non lascia concessione alcuna.
Tu, usi troppa forza... più di quanta ne serva
anche se rincari la dose mi hai già uccisa all'inizio.

Mi sveglio al mattino, un po' già chiaro, rumoroso di pigolii incessanti che giocano con la luce. Carta sfilacciata ai bordi dalle dita, spicchio arancione incollato su un fondo azzurro carta zucchero. Uno sguardo colmo di sonno ritaglia una luna di carta e dietro ci accende una candela.
Un ultimo sguardo ancora sfocato, cielo silenzioso e tetti umidi. Saluto il mattino e richiudo gli occhi.

martedì 28 aprile 2009

pioggia in controluce

Passi per la strada, sotto l'acqua, senza nemmeno tentare riparo che non serve a nulla. Tanto vale buttarcisi sotto.
Alternanza di sanpietrini e asfalto, vicoli stretti e strade ad alto scorrimento con gli alberi intorno, tra arancioni sintetici attraverso le resine dei lampioni e i verdi nuovi falsati da buio e luci umane.
Uno sguardo al cielo che si getta su di noi. Gli archi e le porte racchiudono lo sguardo, e come lamine sottili che tagliano l'aria le gocce di pioggia si fanno vedere solo in controluce.
La pelle le aveva già assorbite.

Ridimensionarsi lentamente, poco alla volta, togliendo frammento dopo frammento, uno per ogni no ricevuto. E piano piano, come fossi gesso, mi sbriciolo sulla punta delle dita non appena provo a sfiorarmi. Una nuvola di polvere bianca, un respiro di giornata fredda, non resta altro.
Le parole diventano fili d'erba scelti e strappati uno ad uno, chiedendo scusa al prato; o forse assomigliano alle gocce di una pioggia acida, che corrode subdolamente senza quasi farne accorgere.
Stridono, senza cura; sono come metalli che si graffiano a vicenda.

Stanca di parole stanche che non sanno che fare di sè, andando avanti del proprio riflesso.

Faccio finta di nulla e sbatto contro porte a vetri ben segnalate.
Sapere come le cose andranno a finire non le rende più innocue.

Continuo a farmi male, rinunciando ogni volta a schegge di me. Le prime che getto sono proprio le più luminose, quelle che sanno rifrarre i colori d'intorno.
Restano tagli, ferite di superficie che tornano a ricordare che i passati non se ne vanno, possono solo ampliarsi.
I segni sono impressi addosso, latenti anche quando ci scordiamo di loro, o peggio facciamo finta che non esistano più.
I marchi non si fanno più a fuoco, direttamente col calore del sangue.

Mi snaturo accettando compromessi che non mi appartengono.
Disimparo ad affezionarmi per non subire i silenzi.

E il labirinto non ha uscita se non sei tu a volerla, a cercarla, a crearla...

sabato 18 aprile 2009

urban tales



Come un carillon suonato leggero, tocchi acuti che si sentono appena, quasi persi e assorbiti dall'aria.
Attraversando tanti luoghi, davvero favole urbane a rincorrersi e succedersi, per voci amiche e braccia strette intorno al corpo.
Sentirsi accolti, di continuo...

Etrangère ou chez moi dans tous les lieux.

Straniera o presso di me ovunque mi trovi... Non c'è un luogo da chiamare casa, che non so se voglia dire che non ce n'è nessuno oppure che ce ne sono molti. Ognuno con una sfaccettatura di me, una delle mie varie vite che mi aspetta lì, sospesa per continuare quando tornerò.

E' stata Paris, con il mio fiorellino personale che mi guarda e sorride, mentre insieme seminiamo continuamente gocce di pioggia a nutrirci.
P., così, senza altre definizioni, che è parte di me e lo scopro quando le sue vie si mostrano così familiari da non dover prestare loro attenzione.
Dall'ultimo piano del Beaubourg un colpo d'occhio ad abbracciarla tutta, fino a MontMartre sulla sua collinetta, in quel bianco strano che con la luce della sera si sporca di grigio, come stesse morendo un poco prima di accendersi per la notte.

Roma, ancora, ogni volta di nuovo e nuova, con altri volti da mostrare, altre voci.
Aspettare che le strade lentamente diventino familiari, conquistate metro dopo metro nei vari momenti del giorno.

Col mio fuoco fatuo sospeso sul tavolo, luce dai colori caldi che non emana calore.

Il mio corpo intanto lacrima sul marmo e senza scalfirlo lascia tracce di sé.
Di giorno lo chiamano grano, devi socchiudere le ciglia e aspettare le ombre per notare un bagliore.

Chiudi gli occhi...

martedì 31 marzo 2009

on the moon

una piccola favola, per iniziare a volare fin dal mattino.

domenica 29 marzo 2009

passi a tempo di pioggia

Sono circa le 2, ormai le 3, in un cambio d'ora perchè il Sole arrivi alla sera senza stancarsi prima di noi, per sentire l'aria addosso senza doversi coprire e riparare dal mondo.
Piove e per le strade l'acqua si mischia alla polvere, alle croste di corteccia, ai rami fini e sottili dei cipressi, a volte perfino sembra portare con sè una nota d'alloro.
Camminare sotto l'acqua giocando con le gocce, per smettere di stare rinserrati tra sè e sè.

venerdì 20 marzo 2009

sguardi sospesi

Accucciata sul mio letto sospeso, in altezze che oscillano tra voli e vuoti d'aria, fremito di pelle e cuore agitato.

Fuori piove, probabilmente scroscia forte; prima le gocce si sentivano schiantare sulle foglie grandi del ficus, dalle fibre robuste e la consistenza sostenuta, piegate a conca a trattenere l'acqua che cade. Ma ora, attraverso i vetri e le tapparelle giù si sente appena qualche rivolo, un brusio di sottofondo, quasi un respiro.

Nido viola sotto un soffitto che si smussa agli angoli e raccoglie tutto,
come una coccola lenta.

Giorni passati a combattere fantasmi di me, perchè non mi facciano indietreggiare, perchè mi lascino respirare anche nel nuovo, in ciò che non conosco e spiazza e spaventa.
Piano piano, imparando a riconoscere ciò che mi circonda da quelle imago che non esistono e che sono io a plasmare dando loro vita, creando un mondo d'intorno che non c'è.
Forse non è vero nulla e in realtà sotto i neon rossi rotolano matasse di sterpi.
Ma non importa e si va avanti giorno per giorno, a recuperare energie e lasciarle fluire, a lasciarmi vivere...

Troppo spesso è frenesia di fondo, che resta compressa e batte sorda come una grancassa frenata.
Voglio un cuore che vada a tempo, che la smetta di ossessionarmi convulso quando non sa che fare solo perchè troppo insicuro per semplicemente agire.

Essere scostanti è un'ottima maschera. Consente di tenere alla larga, così da essere sicuri di non poter essere avvicinati abbastanza da poi deludere.

Paura... E' solo paura...

Ho bisogno di tempo, di far sì che i gesti e le voci diventino familiari, sedimentati a diventare un po' parte di me, così da poterli riconoscere la prossima volta, senza più bisogno di restare all'erta.

E' solo paura...
Dammi tempo di abituarmi a te, di non sentirti più nuovo, più estraneo...

giovedì 12 marzo 2009

oniri(k)o

corridoi arancione acceso, toni di giallo a venarne la superficie, estesa senza limiti.
angoli noti che diventano surreali, si avvicinano e allontanano in un istante per tempi dilatati e di colpo compressi, come una matassa di cotone stretta tra le dita a premere lenta e soffice sul palmo della mano.
piastrelle azzurre colme d'acqua, movimenti scomposti in andirivieni incompresi, piume nere macchiate di bianco ad incorniciare il cuoio di un volto di sciamano.
rossi laccati invadono l'aria, riflessi d'intorno su gesti di legno, come marionette agganciate al filo.

parole sparse, voci a mischiarsi, senza capire più se sono io a sognare o è il mondo che si è messo a sognare con me.
si sovrappongono stesse parole su timbri diversi, doni ricevuti da una voce che non so se sia la mia oppure no.
non importa...

lo so che metto le spine intorno, ma in realtà cerco solo carezze..
no, non è vero, niente spine, niente spine per te,
solo piume...

martedì 17 febbraio 2009

oggetti ruotanti non identificati

Roma non è amica delle biciclette, ma non mi va di farmi bloccare da questo.
Forse è la mia piccola rivoluzione privata, testarda e cocciuta nell'usarla anche qui nonostante io sembri un pesce che decide di farsi una passeggiata sul bagnasciuga...

La mia bici è parcheggiata paziente all'Eur, in attesa che vada a recuperarla. Io sto dalla parte opposta di Roma e la strada che dall'Eur entra in città è infattibile con due ruote non motorizzate, verrei asfaltata nel giro di 500 metri. Unica soluzione è caricarla in metro per un pezzo e già che ci sono arrivare in centro risparmiandomi svariati chilometri pedalando!

Fermata Marconi, gabbiotto delle informazioni Linea B
io: -Scusi, vorrei chiedere una cosa... Biciclette? Come si fa?
(maledetta me che parlo e scrivo sempre in nominale senza usare verbi, e spesso nemmeno complementi!)
-No signorina, guardi, qui bici mica le vendiamo.. (e parte un sogghigno da gatto del cheshire che gli taglia in due la faccia!)
io: -Davvero?? No, ma come?? E io che credevo....
Ghignamo per un po', dopodichè mi conferma che posso portare la bici, ma solo dopo le 9 di sera.

Mille giri e spostamenti vari per chiudere il trasloco in un giorno solo. Arrivano le 9.

Eur Fermi, la bici attaccata a un lampione dietro i cassonetti, nessuno l'ha notata o forse è considerata troppo inutile per essere presa in considerazione. Persino il campanello è ancora al suo posto nonostante sia agganciato al manubrio solo a scatto!

Metro, ostacolo numero uno.
-No signorina, non può passare. Solo i festivi.
io: -No no, anche i feriali, ma dopo le 9.
-(sguardo perplesso) Aspetti che sento. (telefonata) Passi, passi!
io: -Non riesco a fare il biglietto per la bici, mi potrebbe aiutare?
-Ma che biglietto, mica serve!!
[peccato che il sito dell'atac non dica così.. anyway meglio così, un eurello risparmiato!]

Verso la carrozza in testa, dato che sulle altre la bici non può salire.
Arriva il treno e vedo l'espressione del conducente: occhi strabuzzati come se avessi gli sci addosso e stessi pattinando sulla banchina! E invece sono solo in attesa con una bicicletta a mano...
Stussi e sballottolamenti vari, vagoni già praticamente deserti, si arriva a Termini!

Sembro talmente sbarcata da un altro pianeta che il guardiano quasi mi adotta, gran sorrisoni e mi fa passare dalle barriere speciali.
-Allora signorina, come la portiamo su 'sta bicicletta? Chiamo l'ascensore o si fa le scale?
io: -Beh, se c'è l'ascensore è fantastico!
-Vada vada, glielo apro io da qua, non spinga niente, eh, mi raccomando!

Gabbiotto di acciaio satinato in cui inizia a salire un po' di claustrofobia, per fortuna il tragitto è breve e sbuco su Piazza dei Cinquecento! Un respiro d'aria e di sera e si va, su in sella tornando verso la stazione per prendere via Cavour.

Di nuovo mi rendo conto che una bicicletta fa scalpore, nonchè occasione per tentativi di attaccar pezze senza fine da parte dei tassisti fuori Termini!

-Ma che? Torni a casa in bici? Con 'sto freddo??
io: -Ebbè, che no?
-Brava, brava! Ma attenta, eh?!

Prendo via Cavour, godendomi la discesa a velocità elevata, l'aria gelida in faccia che fa lacrimare gli occhi e arrossare le guance. Arrivo a S.ta Maria Maggiore, tratto in salita da fare pedalando in piedi dato che da strade tutte in piano non sono ancora abituata ai dislivelli romani! Per fortuna via Merulana è tutta in discesa, spingendo forte per andar veloce e ignorare il vento gelido che si è abbattuto su Roma.
Arriva un pezzo in salita e tra le macchine e gli occhi che lacrimano a non finire vedo una figura in rosa acceso che mi inizia a gridare addosso.
Bene, probabilmente possiamo raggiungere il clichè massimo stavolta: uomo, pelle nera da profonda Africa, caschetto castano, vestitino attillatissimo rosa schocking con boa in coordinato, accento spiccatamente francese!
-Ma bonne, qu'est ce que tu fais?
Seguono parole varie che col vento addosso non capisco minimamente, ho solo il vago sospetto che non fossero apprezzamenti però....

Via Merulana finisce e S. Giovanni mi sbuca d'improvviso davanti, anche se all'inizio non lo riconosco.
Passo gli archi, inizio a riconoscere vie.
Sono le 10 passate...
Casa...

domenica 8 febbraio 2009

in cerca di terra

freddezza autoimposta

ti sento lontano
mi manchi
mi blocco per non restarci male al sentirti distante
non sentirti mai
non sapere il tuo mondo nè poterti raccontare il mio


mi manchiamo
e ho l'impressione che tutto sia già deciso, per lo meno dato

appeso in un burrone per un filo impigliato a un ramo
lì lì per spezzarsi
ramo o filo


dire mi manchi
ad occhi chiusi
o senza senso
a chi non c'è più, chi è lontano, forse già perso

forse amo la mia pelle dipinta di viola
in quei mi manchi che sono già andati
trascinati via con la spuma del mare


per un istante
rubo parole a me stessa
le rubo a chi le ho dette

per tutte le volte che sono dovuta partire
quando ho lasciato o ho sentito andar via

per tutte le partenze che detesto
come se una ruspa stesse tranciando le mie radici
senza cura
ribaltando la terra scura e i sassi tra cui mi ero fatta spazio

non ho mai imparato a lasciare andare
e ogni volta che parto muoio un poco
mi uccido per trapiantarmi altrove
innesti a metà

ho bisogno di affondare radici.
cerco terra...

sabato 7 febbraio 2009

walking in the air

Ecco una ninnananna, forse la mia...
In fondo è tra le storie che mi ha accompagnato di più quando ero bambina.



I tocchi del piano arrivano con dolcezza, forse tristi, a cullare lentamente.
La storia è quella di un bambino e un pupazzo di neve che prende vita una notte d'inverno, una notte soltanto, per volare sotto le aurore boreali, tra i ghiacci che riflettono la luce del cielo e le balene che escono dal mare.

Sono tratti a matita, sgranati, imperfetti, proprio per questo vibranti...
Non ci sono parole, solo musica, e una fiaba lenta e un poco triste.


Se avete mezz'ora di tempo.....

"The Snowman"
parte 1
parte 2
parte 3



[a chi fosse venuto il dubbio... sì, è David Bowie quello che compare nella ripresa iniziale.....!]

lunedì 2 febbraio 2009

sulle tracce

E' questione di dettagli, e una volta persi quelli non resta poi molto a cui tenersi.

Da sempre mi innamoro in pochi secondi, di gesti, movimenti del volto, di un cappotto... che poi diventano la persona intera, racchiusa e descritta in quell'unico particolare.

Era una sera d'inverno, i locali già chiusi e le luci basse, a tinte arancioni sui mattoni in cotto del centro, i sassi tondi del selciato. Era una sera passata a pedinare un ragazzo dal cappotto di panno nero, lungo fino al ginocchio, abbottonato di lato e col colletto all'orientale.
Forse aveva gli occhi azzurri e la pelle chiara.
L'ho rivisto d'estate, quel ragazzo, vicino alle tende nere che chiudono La Luna quando ci sono i concerti per non far vedere dentro. Ma i suoni passano, anche se offuscati, e si sta lì seduti per terra o in equilibrio sui sellini delle bici, un piede a terra e l'altro sul telaio, a godersi l'aria di giugno quando il sole tramonta.
Nella pianura padana tramonta tardi il sole di giugno, che non ci sono ostacoli all'orizzonte e il cielo continua fino a dove può arrivare lo sguardo.
Aveva una maglietta bianca, stropicciata, come c'avesse dormito. E d'improvviso in quel cotone dismesso si è dissolta la magia del cappotto invernale, allacciato di lato e col colletto basso, girocollo come si porta all'orientale.
Ogni tanto lo incrocio ancora, il "ragazzo del cappotto", e anche se lui non sa chi sia appena lo supero e non può vedermi gli sorrido ogni volta.

Sono dettagli, che ti fanno fissare gli occhi in un punto e non sai più tirarli via.
A volte è un sorriso, di solito per me è il modo di guardare, limpido e aperto, diretto.
Mi incanto negli sguardi che sanno prendere in sè, accogliere senza voler dividere il mondo in bianchi e neri.

Dettagli, che quando si allontanano restano in tracce sfilacciate.
Toni, esclamazioni, profumi che d'improvviso ritroviamo altrove, a centinaia di kilometri di distanza, di cui avevamo perso ogni ricordo ma che di colpo si ripresentano vivi.
Sono mozziconi di parole, le più udite.

Forse è il mio nome, nelle sue tante storpiature, unico per ogni persona che mi sia entrata dentro, che mi richiama.
Ognuna mi dà il suo nome, nuovo nome con cui rinascere ogni volta, per altre mille vite.

In fondo, le voci ho imparato a farle tornare.

domenica 1 febbraio 2009

farfalle di sabbia

Il tempo passa senza che nemmeno me ne accorga, esaurito prima che abbia anche solo pensato a cosa farne.
E' sabbia gialla fatta di pietre sgretolate, anch'esse nate da sabbia. Il vento ne accarezza la pelle ruvida e la trascina poi con sè, vento giallo che graffia ciò che incontra. Non c'è niente sotto ai mulinelli, sabbia su sabbia che gira intorno.
Attese indolenti senza punti di fuga a deviare lo sguardo. E dal labirinto esce solo chi è felice.

Vivo questa città da dentro, troppo per riuscire a guardarla.
E allora faccio come nei luoghi che mi ospitano a breve termine, quelli in cui sono come in prestito. Quasi tutti in fondo...

Torno a casa a piedi, col cielo che ancora gocciola e lascia i muri luccicanti e i ciottoli che sembrano appena usciti dall'acqua, vomitati a riva dal fiume dopo una piena.
Quasi sguiscio e inciampo nei nostri ricordi, ti saluto silenziosa muovendo le labbra senza voce, senza pensarci. Luogo che forse ci ricorda come pochi altri, lì seduti a terra abbracciati dalle mura del castello, il fossato intorno a parlarci d'acqua e dirci di distanze.

Ho perso le parole del buio, dei miei passi che toccano appena il suolo senza far rumore, quando plasmo statuine di cera che parlano tra loro.

Do vita a un sorriso di profilo, a gesti che sanno di casa pur non avendoli mai visti prima. Sono fili di lana sdruciti sui polsi, come tele di ragno a imbrigliare i dorsi delle mani, la stoffa a scaldare i palmi.
Fingo di andare a disegnare parole in aria e resto a guardare, incapace di me.

Di nuovo e sempre in partenza, non posso cercare legami da abbandonare. O forse è la scusa che mi do per non tentare davvero, e restare tra me.
Non ho più occhi che sorridano di me, non ci sono braccia che mi tengano vicina, senza farmi andar via. E ogni volta è la bugia che mi racconto per fuggire e iniziare altra vita, come potesse essere diversa, come potessi essere diversa.
In fondo resto sempre io...

Farfalle senza polverina sulle ali tenute sottovetro, sperando che prima o poi vada in frantumi.

mercoledì 21 gennaio 2009

la luce è nascosta nell'ombra

Legarsi, stringersi forte.

Resti lì con le braccia spalancate, in procinto di volo o per accogliermi contro il petto, stretta forte.
Noi a mondi opposti che si fanno guerra a vicenda. Talmente prossimi che io inizio dove finisci tu...



Mattine d'estate, stesi su un letto che ruba all'ombra un filo d'aria, recuperato in soffio dal mare.
Non darsi mai per scontati, ogni giorno daccapo, in orizzonti verticali che ruotano e sfumano mentre il sole sprofonda sullo Jonio blu cobalto.
Tra difetti e ferite, sono desideri che danzano nei riflessi d'ombra, lì dove il sole filtra e sgrana l'aria.

-Buongiorno
-Good morning

La luce è nascosta nell'ombra.

lunedì 12 gennaio 2009

nautilus, dandelion, fuochi fatui

Le parole si sono chiuse come un nautilus, non mi lasciano entrare.
Smetti di scrivere per altri immaginari. Scrivi per qualcuno, per te, per nessuno. Ma non scegliere altro.
Non lanciare parole come semi di soffione... Mascherati di lanugine non possono mostrarsi nè darsi. Nemmeno attecchire.

Cercare l'incoscienza per lasciare il giorno, dare e prendere, scrollar via i pensieri che fingono o cercano di essere per lasciare spazio alla marea che oscilla lenta, tra i capogiri che accompagnano il sonno.
Via i pensieri, fatti di razionalizzazioni continue, talmente tante da esaurire tutte le energie. E poi non resta forza per far altro che l'ultimo nodo al filo e prenderlo tra i denti per spezzarlo.
Lasciarsi andare, è l'unica strada, senza pensare.

Sensazioni che scorrrono sotto la pelle più superficiale, sussurrando cose che non voglio sapere, non vorrei sentire.
Ogni volta che ci accontentiamo di noi ci allontaniamo un poco in più, prima o poi rischieremo di perderci. E se fosse già successo, mentre eravamo distratti e coi pensieri altrove, senza guardarci...?

Ogni giorno costruiamo le nostre maschere, scivoliamo tra le rughe del cuoio piegato da artigiani dalle mani ruvide e le dita antiche. Forse solo apprendisti stregoni che non sanno con che giocano - o non sanno a che giocare e riempiono il tempo di lucciole e fuochi fatui.

Giochiamo e recitiamo copioni ad arte finchè le maschere non si appoggiano alla pelle, ci s'incollano addosso.
Ci siamo persi quando abbiamo accettato tutto questo, un addio sussurrato a mezza voce, appena un bisbiglio, quasi dolce...

sabato 3 gennaio 2009

le briciole brillano alla luna?

Lasciamo troppo spesso che altri decidano per noi, traccino vie, le nostre modalità d'essere.
Ti accontenti di briciole di pane che sotto la luna non brillano e si confondono alla sabbia, beccate dagli uccelli notturni dalla voce stridula che gratta in gola e contrae la pelle. Tra gli alberi il vento fischia, e il tuo respiro non lo senti più.
Fingo, fingo, fingo di continuo, convincendomi che le briciole gettate tra la polvere sono tutto ciò che desidero. O forse non mi voglio così bene... E allora penso che sono tutto ciò che merito.
A furia di gettarci tra la polvere diventiamo mendicanti.
Frugo nel cesto degli scampoli, cercando stralci di me da dar via per nulla in cambio.

E mi chiedo cosa succederebbe se iniziassi a cantarmi come Vassilissa la Bella con le vesti ricamate d'argento, che solca le onde vestita da esse e con manti di spuma...

Chissà, forse non c'è davvero nulla in fondo.

Dischiudi il vaso, senza pensare.
Mal che vada l'aria potrà comunque entrare dentro, fischiare nei cerchi della terracotta che dal fondo salgono alla bocca, portare con sè profumo di argilla e buio, impronte umide tra terra e aria.

venerdì 2 gennaio 2009

le matite graffiano i fogli

Usare mezzi inutili e tristi come parole tracciate su un asfalto da calpestare senza cura, sporcate della neve imbevuta di smog che ricopre le cose.
Non è più tempo di cura e sorrisi, e dovrei imparare a capirlo.

Vado presa a piccole dosi, forse solo in questo mondo fatto di segni in bianco e nero in cui la prossimità è fittizia e le varie tempeste che porto con me sono tenute distanti, a scaricare sul mare.

Parole che esplodono, ancor più perchè non possono essere dette.
C'è un cuscino contro la bocca mentre le grida vogliono uscire, le lenzuola s'infilano in gola e premono sulla lingua per insegnarle a tacere.

E' tempo sbagliato questo, e il modo non fa che seguire il tempo.

Smettiamola di fingere che io possa tracciare immagini belle, o parole per evocare pensieri. Almeno cessiamo di fare commedia.

Non capisci perchè piango, non so se riuscirai a farlo.

Cerco scatole buie per non pensare.
Continuo a progettar fughe, per non dovermi scontrare con me.
In mano una matita senza punta, io, un abbozzo che non sa che fare con sè.