martedì 17 febbraio 2009

oggetti ruotanti non identificati

Roma non è amica delle biciclette, ma non mi va di farmi bloccare da questo.
Forse è la mia piccola rivoluzione privata, testarda e cocciuta nell'usarla anche qui nonostante io sembri un pesce che decide di farsi una passeggiata sul bagnasciuga...

La mia bici è parcheggiata paziente all'Eur, in attesa che vada a recuperarla. Io sto dalla parte opposta di Roma e la strada che dall'Eur entra in città è infattibile con due ruote non motorizzate, verrei asfaltata nel giro di 500 metri. Unica soluzione è caricarla in metro per un pezzo e già che ci sono arrivare in centro risparmiandomi svariati chilometri pedalando!

Fermata Marconi, gabbiotto delle informazioni Linea B
io: -Scusi, vorrei chiedere una cosa... Biciclette? Come si fa?
(maledetta me che parlo e scrivo sempre in nominale senza usare verbi, e spesso nemmeno complementi!)
-No signorina, guardi, qui bici mica le vendiamo.. (e parte un sogghigno da gatto del cheshire che gli taglia in due la faccia!)
io: -Davvero?? No, ma come?? E io che credevo....
Ghignamo per un po', dopodichè mi conferma che posso portare la bici, ma solo dopo le 9 di sera.

Mille giri e spostamenti vari per chiudere il trasloco in un giorno solo. Arrivano le 9.

Eur Fermi, la bici attaccata a un lampione dietro i cassonetti, nessuno l'ha notata o forse è considerata troppo inutile per essere presa in considerazione. Persino il campanello è ancora al suo posto nonostante sia agganciato al manubrio solo a scatto!

Metro, ostacolo numero uno.
-No signorina, non può passare. Solo i festivi.
io: -No no, anche i feriali, ma dopo le 9.
-(sguardo perplesso) Aspetti che sento. (telefonata) Passi, passi!
io: -Non riesco a fare il biglietto per la bici, mi potrebbe aiutare?
-Ma che biglietto, mica serve!!
[peccato che il sito dell'atac non dica così.. anyway meglio così, un eurello risparmiato!]

Verso la carrozza in testa, dato che sulle altre la bici non può salire.
Arriva il treno e vedo l'espressione del conducente: occhi strabuzzati come se avessi gli sci addosso e stessi pattinando sulla banchina! E invece sono solo in attesa con una bicicletta a mano...
Stussi e sballottolamenti vari, vagoni già praticamente deserti, si arriva a Termini!

Sembro talmente sbarcata da un altro pianeta che il guardiano quasi mi adotta, gran sorrisoni e mi fa passare dalle barriere speciali.
-Allora signorina, come la portiamo su 'sta bicicletta? Chiamo l'ascensore o si fa le scale?
io: -Beh, se c'è l'ascensore è fantastico!
-Vada vada, glielo apro io da qua, non spinga niente, eh, mi raccomando!

Gabbiotto di acciaio satinato in cui inizia a salire un po' di claustrofobia, per fortuna il tragitto è breve e sbuco su Piazza dei Cinquecento! Un respiro d'aria e di sera e si va, su in sella tornando verso la stazione per prendere via Cavour.

Di nuovo mi rendo conto che una bicicletta fa scalpore, nonchè occasione per tentativi di attaccar pezze senza fine da parte dei tassisti fuori Termini!

-Ma che? Torni a casa in bici? Con 'sto freddo??
io: -Ebbè, che no?
-Brava, brava! Ma attenta, eh?!

Prendo via Cavour, godendomi la discesa a velocità elevata, l'aria gelida in faccia che fa lacrimare gli occhi e arrossare le guance. Arrivo a S.ta Maria Maggiore, tratto in salita da fare pedalando in piedi dato che da strade tutte in piano non sono ancora abituata ai dislivelli romani! Per fortuna via Merulana è tutta in discesa, spingendo forte per andar veloce e ignorare il vento gelido che si è abbattuto su Roma.
Arriva un pezzo in salita e tra le macchine e gli occhi che lacrimano a non finire vedo una figura in rosa acceso che mi inizia a gridare addosso.
Bene, probabilmente possiamo raggiungere il clichè massimo stavolta: uomo, pelle nera da profonda Africa, caschetto castano, vestitino attillatissimo rosa schocking con boa in coordinato, accento spiccatamente francese!
-Ma bonne, qu'est ce que tu fais?
Seguono parole varie che col vento addosso non capisco minimamente, ho solo il vago sospetto che non fossero apprezzamenti però....

Via Merulana finisce e S. Giovanni mi sbuca d'improvviso davanti, anche se all'inizio non lo riconosco.
Passo gli archi, inizio a riconoscere vie.
Sono le 10 passate...
Casa...

domenica 8 febbraio 2009

in cerca di terra

freddezza autoimposta

ti sento lontano
mi manchi
mi blocco per non restarci male al sentirti distante
non sentirti mai
non sapere il tuo mondo nè poterti raccontare il mio


mi manchiamo
e ho l'impressione che tutto sia già deciso, per lo meno dato

appeso in un burrone per un filo impigliato a un ramo
lì lì per spezzarsi
ramo o filo


dire mi manchi
ad occhi chiusi
o senza senso
a chi non c'è più, chi è lontano, forse già perso

forse amo la mia pelle dipinta di viola
in quei mi manchi che sono già andati
trascinati via con la spuma del mare


per un istante
rubo parole a me stessa
le rubo a chi le ho dette

per tutte le volte che sono dovuta partire
quando ho lasciato o ho sentito andar via

per tutte le partenze che detesto
come se una ruspa stesse tranciando le mie radici
senza cura
ribaltando la terra scura e i sassi tra cui mi ero fatta spazio

non ho mai imparato a lasciare andare
e ogni volta che parto muoio un poco
mi uccido per trapiantarmi altrove
innesti a metà

ho bisogno di affondare radici.
cerco terra...

sabato 7 febbraio 2009

walking in the air

Ecco una ninnananna, forse la mia...
In fondo è tra le storie che mi ha accompagnato di più quando ero bambina.



I tocchi del piano arrivano con dolcezza, forse tristi, a cullare lentamente.
La storia è quella di un bambino e un pupazzo di neve che prende vita una notte d'inverno, una notte soltanto, per volare sotto le aurore boreali, tra i ghiacci che riflettono la luce del cielo e le balene che escono dal mare.

Sono tratti a matita, sgranati, imperfetti, proprio per questo vibranti...
Non ci sono parole, solo musica, e una fiaba lenta e un poco triste.


Se avete mezz'ora di tempo.....

"The Snowman"
parte 1
parte 2
parte 3



[a chi fosse venuto il dubbio... sì, è David Bowie quello che compare nella ripresa iniziale.....!]

lunedì 2 febbraio 2009

sulle tracce

E' questione di dettagli, e una volta persi quelli non resta poi molto a cui tenersi.

Da sempre mi innamoro in pochi secondi, di gesti, movimenti del volto, di un cappotto... che poi diventano la persona intera, racchiusa e descritta in quell'unico particolare.

Era una sera d'inverno, i locali già chiusi e le luci basse, a tinte arancioni sui mattoni in cotto del centro, i sassi tondi del selciato. Era una sera passata a pedinare un ragazzo dal cappotto di panno nero, lungo fino al ginocchio, abbottonato di lato e col colletto all'orientale.
Forse aveva gli occhi azzurri e la pelle chiara.
L'ho rivisto d'estate, quel ragazzo, vicino alle tende nere che chiudono La Luna quando ci sono i concerti per non far vedere dentro. Ma i suoni passano, anche se offuscati, e si sta lì seduti per terra o in equilibrio sui sellini delle bici, un piede a terra e l'altro sul telaio, a godersi l'aria di giugno quando il sole tramonta.
Nella pianura padana tramonta tardi il sole di giugno, che non ci sono ostacoli all'orizzonte e il cielo continua fino a dove può arrivare lo sguardo.
Aveva una maglietta bianca, stropicciata, come c'avesse dormito. E d'improvviso in quel cotone dismesso si è dissolta la magia del cappotto invernale, allacciato di lato e col colletto basso, girocollo come si porta all'orientale.
Ogni tanto lo incrocio ancora, il "ragazzo del cappotto", e anche se lui non sa chi sia appena lo supero e non può vedermi gli sorrido ogni volta.

Sono dettagli, che ti fanno fissare gli occhi in un punto e non sai più tirarli via.
A volte è un sorriso, di solito per me è il modo di guardare, limpido e aperto, diretto.
Mi incanto negli sguardi che sanno prendere in sè, accogliere senza voler dividere il mondo in bianchi e neri.

Dettagli, che quando si allontanano restano in tracce sfilacciate.
Toni, esclamazioni, profumi che d'improvviso ritroviamo altrove, a centinaia di kilometri di distanza, di cui avevamo perso ogni ricordo ma che di colpo si ripresentano vivi.
Sono mozziconi di parole, le più udite.

Forse è il mio nome, nelle sue tante storpiature, unico per ogni persona che mi sia entrata dentro, che mi richiama.
Ognuna mi dà il suo nome, nuovo nome con cui rinascere ogni volta, per altre mille vite.

In fondo, le voci ho imparato a farle tornare.

domenica 1 febbraio 2009

farfalle di sabbia

Il tempo passa senza che nemmeno me ne accorga, esaurito prima che abbia anche solo pensato a cosa farne.
E' sabbia gialla fatta di pietre sgretolate, anch'esse nate da sabbia. Il vento ne accarezza la pelle ruvida e la trascina poi con sè, vento giallo che graffia ciò che incontra. Non c'è niente sotto ai mulinelli, sabbia su sabbia che gira intorno.
Attese indolenti senza punti di fuga a deviare lo sguardo. E dal labirinto esce solo chi è felice.

Vivo questa città da dentro, troppo per riuscire a guardarla.
E allora faccio come nei luoghi che mi ospitano a breve termine, quelli in cui sono come in prestito. Quasi tutti in fondo...

Torno a casa a piedi, col cielo che ancora gocciola e lascia i muri luccicanti e i ciottoli che sembrano appena usciti dall'acqua, vomitati a riva dal fiume dopo una piena.
Quasi sguiscio e inciampo nei nostri ricordi, ti saluto silenziosa muovendo le labbra senza voce, senza pensarci. Luogo che forse ci ricorda come pochi altri, lì seduti a terra abbracciati dalle mura del castello, il fossato intorno a parlarci d'acqua e dirci di distanze.

Ho perso le parole del buio, dei miei passi che toccano appena il suolo senza far rumore, quando plasmo statuine di cera che parlano tra loro.

Do vita a un sorriso di profilo, a gesti che sanno di casa pur non avendoli mai visti prima. Sono fili di lana sdruciti sui polsi, come tele di ragno a imbrigliare i dorsi delle mani, la stoffa a scaldare i palmi.
Fingo di andare a disegnare parole in aria e resto a guardare, incapace di me.

Di nuovo e sempre in partenza, non posso cercare legami da abbandonare. O forse è la scusa che mi do per non tentare davvero, e restare tra me.
Non ho più occhi che sorridano di me, non ci sono braccia che mi tengano vicina, senza farmi andar via. E ogni volta è la bugia che mi racconto per fuggire e iniziare altra vita, come potesse essere diversa, come potessi essere diversa.
In fondo resto sempre io...

Farfalle senza polverina sulle ali tenute sottovetro, sperando che prima o poi vada in frantumi.