venerdì 27 giugno 2008

schegge di legno, foglie di lauro

Restano fotografie non scattate su un letto ormai sfatto,
disfatto e rifatto per l'ultima volta.

La mia maschera appesa al muro mi guarda macchiata di nero, linee scure a dipingerle il volto, forse distorcerlo, inchiostro che scorre e incide parole.
Dal mio viso ho lavato ogni traccia di colore, i porpora e gli oltremare hanno lasciato posto a un bianco che riflette inerte la luce.
E se non sai potresti credere che sia sempre stato così.
Alterego scolpito che si fa bello coi miei trucchi migliori, i più studiati e i più freddi, puri artifici, immobilità sola in cui non si può esistere.
Al suo posto io, universo imperfetto e irregolare, per questo vivo.
Mastico lauro per pronunciare parole.

Non accontentarmi più delle linee che sono stata io stessa a tracciare
coscientemente per darmi forma.

Chiedersi che ne è di queste parti di sè, non ci si abitua a dire addio.
Lascio ciò che non ho detto, non ho fatto, non ho visto, portandomi dietro sorrisi e istantanee scolpite sottopelle.
E i silenzi? Colori di suoni sbiaditi, non so se serbarli o abbandonarli, in fondo sono solo lame che non hanno più filo.

Trucioli di legno come farfalle spiegazzate in aria
dispersi dal vento.

venerdì 20 giugno 2008

studi notturni

Dove debbo tendere davvero, là devo in realtà già essere.


[L. Wittgenstein]

giovedì 19 giugno 2008

spighe di grano

... e nonostante la grazia di certi luoghi si tratta di una bellezza grigia e inerte, nulla a che fare col respiro vitale che t'invade non appena esci dalla sua frenesia incontrollata, ogni spostamento un viaggio da pianificare.
Il fiume che si snoda senza condizionamenti, un cielo che si espande lasciando corso alle nuvole di condensarsi e scurire cupe il mondo per poi fuggire in sbuffi bianchi, luce chiara a filtrare sotto un cielo senza fine poggiato sui filari degli alberi.
Smette di piovere, e con la pioggia abbandono anche la scalinata di pietra di Auvers, grigio cupo lisciato dal tempo e riflettente luce, una terra finalmente senza asfalto, campi a tuttotondo intorno a noi.
Un mare di grano con le sue onde ad andare e venire, le spighe che si alzano fiere nel cielo, spuma bianca a brillare del sole opaco sul giallo cupo sottostante. Poi un raggio, improvviso, luce in cui i chicchi chiari diventano bianchi, le punte delle spighe oscillano e si piegano all'aria, il vento gioca e scompiglia le forme facendo apparire e scomparire a tratti graminacee dal colore violaceo, steli lunghi e rigidi dalle foglie stellate tra un verde e un rosso cupi uniti a sfumare uno nell'altro, papaveri dal rosso avido che afferra e scompare reinghiottito dal fluire del grano.
Filamenti lunghi a entrare nell'aria, non sapendo se sia il vento a sfiorare il campo o le spighe a carezzare il cielo, grigio scuro ma non cupo, fatto di nuvole piene, gravide di pioggia densa ma lontane, non pesanti e bloccate dal loro stesso peso ma galleggianti in aria, leggere nonostante l'acqua sospesa e trattenuta in cielo.
Soffio d'aria a intessere forme, un fluire di tempo che salta, senza ritmo, che filtra l'aria e ne scompone i pieni. Vorrei buttarmi e sentirmi sospesa, le spighe a sostenermi un attimo prima di affondare, il grano intorno e i chicchi ancora acerbi a punteggiare il cielo, il calore del sole chè già comincia a bruciare i colori, una terra compatta e scura, umida nel suo far respirare il suolo.
Sdraiata a respirare grano. Sdraiata a diventare grano, cercar grano. Scorgere stralisco... Lucciola o grano? Forse solo bagliore e inganno d'occhi, peccato sia ancora giorno pieno e non poter sapere. E se fosse davvero germogliata in mezzo al grano ancora acerbo una spiga di stralisco?

Ma c'è ancora troppa luce e lo stralisco brilla al buio, nel silenzio notturno, quando i pensieri tornano a sè, tornano vivi. Nessuna parola, pensiero in immagini, intessendo trame e orditi in disegni improbabili e irreali. Acuire gli occhi e sapere ascoltar l'ombra, consegnare il mondo al giorno e lasciarlo fluir via, quiete e silenzio per ritrovare forme nell'indistinto che annulla e assorbe in sè.
Riabituarsi a prestar cura...

il suo fiato, vasto e lento, sembrava l'onda del vento che piegava lo stralisco
[R. Piumini]

giovedì 12 giugno 2008

senza coraggio di chiedere

Mi serve disciplina ferrea per non crollare, per non lasciarmi spazio, che le nuvole grigie e la pioggia insistente hanno subito scacciato il sole, appena comparso, e di nuovo mi scopro addosso ferite che non vogliono guarire, resistenti al tempo e tenaci come non mai nel lasciarmi sanguinare. Nessuna tregua a prendersi cura di me..

Mi abbracci?
Peccato che non abbia trovato il coraggio di chiedertelo.
Anche se forse la paura più grande, quella che mi porta ora a crollare senza controllo, a cancellare parole prima di dirle, è di riceverlo, che un abbraccio domandato non si rifiuta mai.. Cerco di resistere, mi faccio ancor più male nel far finta che un abbraccio richiesto non servirebbe a nulla, che nel momento in cui ti chiedo un contatto del genere quasi diventerebbe vincolante, e temo che sforzando il tuo cuore per starmi vicino in questo gesto mi estrometteresti da te. Non lo voglio. E piuttosto resto a piangere sola, sotto nuvole bianche e morbide in cui il mio nero diventa ancora più scuro.

In silenzio, senza parole, senza dirmi nulla. Senza motivo tranne l'affetto, solo un abbraccio, nulla di più, ma stringimi un attimo. Accoglimi tra le tue braccia, contro il tuo corpo, il tempo di recuperare un po' di calore, poi potrai lasciarmi andare e i miei passi si allontaneranno da te, verso il mondo, e il viso rimarrà saldo in avanti, non mi volterò a guardarti. Abbracciami però. Non da amico, non da amante, non da estraneo. Abbracciami solo perchè mi vuoi bene e nel voler bene vuoi prenderti cura di me, perchè questo è affetto, prendersi cura, preoccuparsi per l'altro. E non per proteggerlo o fare passi al suo posto, ma solo per fargli sentire che non è solo, che ha un posto tra i pensieri in cui tornare e sentirsi accolto, accettato in quel che è, senza eccezioni, in ogni fragilità o contraddizione, sè, tu, io, interamente ed essenzialmente per quel che siamo.

Abbracciami, ora, anche se non ho trovato il coraggio di chiedertelo. Stringimi, anche leggermente se vuoi, mi basta anche solo un contatto, sentire il caldo della tua mano poggiata sulla schiena. Senza un perchè. Solo perchè ho bisogno di sentire calore e so quanto la tua pelle potrebbe donarmene.

abbracciami

mercoledì 11 giugno 2008

incrocidiventi

Quanto fanno bene certi sorrisi.
Ti ci specchi dentro, e magari se fuori è appena spuntato il sole nonostante sia già sera finalmente anche il viso può distendersi, tornare ad occhi limpidi che non vedeva da tempo, respiri lenti, finalmente aria ad entrare senza freni, mondo non visto più solo come un qualcosa da cui doversi guardare, a cui non concedersi per non rischiare di crollare in frammenti al primo pezzetto fuori posto, al primo sguardo tagliente o parola fredda.
Mondo che sembra voler chiedere tutto o niente, brilla o scompari, non ci sono vie di mezzo. E in fondo sono canoni che mi hanno plasmato fin troppo bene..
I passi rallentanto, tastano il suolo, gli occhi indugiano un po' più sulle cose, le imprimono in sè per poterle ricostruire nella distanza, gli odori cominciano ad avere sentore di fine. Forse perchè qui mi sono concessa tempo. Tempo di fidarmi, tempo di offrirmi e tempo di lasciare entrare, tempo di legarmi.
Sono venti strani quelli che ci portano a librarci nell'aria.
Venti che soffiano con forza portando con sè le geometrie perfette dei bianchi artici. Bonacce che scaldano l'aria, divenuta così pesante da appoggiarsi sull'erba tagliata d'estate tra giornate di quiete e immobilità assoluta. Libecci d'africa a sollevare sabbia ruvida che leviga cose e pensieri impercettibilmente, come sciarpa di seta passata su pietra così lungamente da smussarne ogni linea tagliente. Venti a portarci con sè, su, nell'aria più rarefatta dove i pensieri si perdono in giochi senza regole nè logiche, intrecci che seguono come unica via una bellezza di stare.
Resto così, in punta di piedi perchè il vento a passare non faccia alcuno sforzo a sollevarmi da terra. Sospesa. Cercando bagliori d'occhi prima di andarmene.

lunedì 9 giugno 2008

mi mancheranno i tuoi cieli

Cieli silenziosi, tramonti pulsanti.
Inizio a pensare che a breve dovrò salutarti, e ricordo altri cieli, altre voci, perchè dopo un po' che parti e viaggi ti rendi conto che i passi mutano direzione ma non sono mai addii e prima o poi si torna. Quasi sempre.
Mi mancheranno i tuoi cieli.
Respirare nuvole leggere, colori a colmare, mentre profumi invadono la pelle e ti trascinano via. Ho scelto i fiori come amanti, non hanno pretese, sono bastevoli a se stessi, narcisi effimeri che si specchiano uno nell'altro godendo della loro bellezza riflessa. Mi annullo quasi in questi contatti che accarezzano occhi e pelle nella luce fredda del mattino, luce e venature lisce, profumi dolci dalle note estranee.

E voi?
Voi quali pelli avete percorso,
di quanti profumi vi siete nutriti?

Pietra umida sotto i palmi, aria fresca, colleziono colori tra fiori e tramonti per farmene abbracciare quando il grigio e il silenzio saranno troppo densi.
Mi stacco dal suolo, le nuvole non hanno più peso.

domenica 8 giugno 2008

sorrisi che non sanno di esistere

Le città nascoste

Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gente cammina torcendosi le mani, impreca ai bambini che piangono, s'appoggia ai parapetti del fiume con le tempie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro. Tra i banconi dove ci si schiaccia tutti i momenti le dita con il martello o ci si punge con l'ago, o sulle colonne di numeri tutti storti nei registri dei negozianti o dei banchieri, o davanti alle file di bicchieri vuoti sullo zinco delle bettole, meno male che le teste chine ti risparmiano dagli sguardi torvi. Dentro le case è peggio, e non occorre entrarci per saperlo: d'estate le finestre rintronano di litigi e piatti rotti. Eppure, a Raissa, a ogni momento c'è un bambino che da una finestra ride a un cane che è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un muratore che dall'alto dell'impalcatura ha esclamato: - Gioia mia, lasciami intingere! - a una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto la pergola, contenta di servirlo all'ombrellaio che festeggia un buon affare, un parasole di pizzo bianco comprato da una gran dama per pavoneggiarsi alle corse, innamorata d'un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l'ultima siepe, felice lui ma più felice ancora il suo cavallo che volava sugli ostacoli vedendo volare in cielo un francolino, felice uccello liberato dalla gabbia da un pittore felice di averlo dipinto piuma per piuma picchiettato di rosso e di giallo nella miniatura di quella pagina del libro in cui il filosofo dice: "Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere".

[I. Calvino, Le città invisibili]

giovedì 5 giugno 2008

cura

non ricordo...

ho bruciato vetro.
accendo fuoco per vedere il nero salire
perdere trasparenza
e sentire la mia pelle strinata.
brucio l'aria
perchè non so più respirare.
specchio d'acqua
mi scivolo addosso
e il vetro affonda in silenzio.
superficie inerte in balia del vento
terra secca
non sai più germogliare.

non ricordo più...
come facevo a prendermi cura di me.. (?)

mercoledì 4 giugno 2008

pelle lacera

Mi sveglio al mattino trovando su me lividi e tagli, come se il mio corpo volesse rispondere alle violenze notturne che mi somministro con cura, meticolosamente. Una pelle che decide di tendersi e lacerarsi sola prima che sia io ad arrivare a farlo.
Lividi, escoriazioni, tagli di superficie che non ricordo, come se le violenze di cui sono andata in cerca col buio si aggrappassero alla mia pelle per non essere scacciate.
Su pareti tristi e squallide che sono stata io a creare mi violento per non sentirmi sola, e al mattino mi scopro addosso una pelle lacera che ne porta i segni.