lunedì 29 giugno 2009

acrobati e fili bianchi tra le cime degli alberi

...e gli alberi crescono sempre sul filo delle colline, curva morbida a sfiorare il cielo.

Volta la pagina, un foglio bianco va lasciato per cominciare da nuovo, punte di silenzio a sfumare tra due bordi, due confini.
Stiamo ancora a metà, a giocare di noi, sospesi in punta di piedi sul filo di cotone bianco che lega le pagine. In fondo siamo sempre stati degli acrobati, in evoluzioni sospese in trame un poco oniriche.

Malinconia triste di un treno che parte e si allontana, mentre il sole spacca in due le nuvole grigie e affonda i raggi intorno agli alberi, silhouette scure a ricamarmi la notte che viene.

Le parole escono di bocca senza pensarci, mentre torno a casa a piedi dalla stazione per cercare di respirare la notte, con le nuvole cupe che incombono sulle case a schiacciarle a terra.
E' un filo che esce di gola e si snoda insieme a me per le strade, come un monito a cercare solo parole che si prendano cura di me, di quel che sono.



Dovremmo avere solo parole d'amore per le persone a cui vogliamo bene, per prendercene cura.
Non dirmi parole che non siano di cura. Sai che farò lo stesso con te.

I ricordi restano sulla punta delle dita e la mia pelle è ancora una traccia che per stanotte inspirerò lenta.
In gola sento ancora il sapore dei kumquat.

mercoledì 10 giugno 2009

di sbuffi bianchi e grani scuri

In treno.
La penna sfuggirà al controllo questa volta, e i sobbalzi tra un pezzo di ferro e l'altro fanno andare a singhiozzo anche me.
Il tempo scorre e non faccio nulla per fermarlo, lo lascio andare perchè intervenire si può fare solo a volte, solo quando cambia qualcosa.
Non di nuovo, non più. Ora il tempo deve solo scorrere e portarsi via la malinconia degli occhi.

Passano i casolari in mattoni di cotto, la terra toscana sa di rosso bruciato e profuma di pino e d'alloro, con la punta delle dita macchiata di nero come la cenere sui gusci lisci dei pinoli appena raccolti.

Lascio andare il tempo senza immergermici, senza volergli parlare.
Indugio, i pensieri vanno a rilento. La mano e gli occhi ritratti hanno lasciato nell'aria una scia di vuoto.

Per legarsi servono gesti di cura. Sono stati scordati da tempo.

Continuano i campi che iniziano a sapere d'estate.
Io mi faccio fredda e inizio a macinare i ricordi come farina.

Tra gli incavi della macina restano le scorze ruvide e scure, tutti i no che sono cresciuti insieme al grano e che ora spiccano impietosi sulla pietra bianca come piccole schegge nere.
Tutto sfuma nella nuvola di farina che si solleva in aria in sbuffi e volute.
Quei grani neri restano sugli occhi a trapuntare lo sguardo come un arazzo, macchie scure di quando si fissa troppo il sole.

mercoledì 3 giugno 2009

strade di casa

Rimando istantanee collezionate durante il giorno, rischiando di perderle come stampe a caldo in cui il nero scompare e resta solo una traccia sbiadita.


Ogni volta che torno a casa sono i gelsomini a salutare, avvolgenti, odore tondo e leggero al tempo stesso, come non sapesse come conciliare le note troppo dolci con il bianco sospeso a tratti nello scuro dell'ombra.
Per terra i fiori caduti e già troppo calpestati restano orme bianche adese al suolo, tocchi lievi ad accarezzare un asfalto troppo ostile.

La pioggia acuisce gli odori e un solo albero d'alloro si spande intorno come fosse foresta intera, quasi che una stilla concentratissima di profumo fosse stata disciolta nelle gocce che cadono dal cielo.
Per una volta la città odora di sottobosco.

La sera, verso le 8, il sole irradia tutto come una fiamma dal colore tiepido, e le cose iniziano a sussultare, come a ritmo, lento, quello di un petto che cresce e cala nel saliscendi del respiro.
Le Terme di Caracalla si riempiono d'aria e il colore dei mattoni diventa un tutt'uno con quello dei pini marittimi, fieri, alti ad entrare nel cielo e scalfire l'azzurro. E' tutto tinto di rossastro, con le ombre che puntano al grigio e s'insinuano e allungano negli interstizi. Crepe di mattone o scorze d'albero sono lo stesso.

I fiori di magnolia si vedono di lontano. Un butto ci mette molto a ingrossarsi, affusolato in cima e gonfio e pieno in base. Sboccia e i petali in bianchi danno luce alle foglie, lasciano respirare la loro lentezza.
Il giorno dopo sono già bruciati, i petali esposti al calore del sole accartocciati come frammenti di carta bruciata.

Certi luoghi raccontano storie già dal nome.
Le Gole dell'Alcantara sembrano raccontare che a perdersi negli anfratti di roccia l'acqua si metterà a trillare acuta, come tanti campanelli scossi dalla spuma. O forse è un canto talmente leggero che si finisce a scambiarlo per un brusio, talvolta un respiro.
Stella Polare non ha nulla della lucentezza artica, e la sabbia grigia scotta a camminarci. Però ha una lucentezza da luna al suo sorgere in certi momenti, di quando ancora all'orizzonte diventa giallorosa, grande e calda e non astro freddo sospeso in un cielo troppo scuro.
Più in là della spiaggia ci sono nuvole d'oro opaco, spighe che frusciano una sull'altra come fossero nebbia. Vibrano, e troppo sottili scompongono l'aria in una nuvola di sabbia impalpabile. Alla base, tra l'erba già bruciata, fiori viola cupo sono tocchi intensi che riportano le spighe a terra. Mischiate a loro le trattengono al suolo, per carezzare la terra e bisbigliarle leggere.