sabato 26 luglio 2008

cielo di polvere

è stupido
pensare che
la polvere
sia immobile

Cielo di sabbia, sabbia gialla che cade dalle dune del cielo mentre case e nuvole cambiano tono, un grigio caldo che scende dalla volta barocca del giorno in finire, vento a trascinare veloce, colpi radi di azzurro lucido.
Acqua che cade, seta bianca sulla pelle, trasparente nel suo bagnarsi, forse la seta, forse la pelle.
Mani vive, sporche di nero, a litigare contro una bicicletta quasi troppo nuova che con la pioggia decide bene di scardinarsi e mollarti sotto il cielo che viene.
Acqua che cade, scirocco d'Afica in un Rinascimento d'estate, silenzioso e immobile, cotto rosso bagnato dall'acqua, rilfettente la luce del cielo, splendente quasi.
Strade lisce, vuote, uno scalone di pietra bianca e un cielo che continua a sembrare di sabbia, clessidra rotta che rilascia nell'aria grani dispersi.
Mani leggere appoggiate sui fianchi, gocce d'acqua a bagnare la pelle, ricercando equilibrio per non cadere, scivolare leggeri senza senso d'attrito.

Sabbia dal cielo e pagine impolverate su un pianoforte chiuso.
No, la polvere non è immobile, però congela le cose.
Ferma il tempo e lo ricopre lenta, la sabbia scende e sotterra i pensieri.
Ma poi saltano fuori pagine antiche, oggetti senza perchè che anche fossero spariti non ce ne saremmo accorti.
Ritrovo un'altra vita, un'altra me, le scelte che non ho fatto per paura, un'io che ho censurato sotto cumuli di discorsi razionalizzanti, una me a cui non ho lasciato spazio e brucia forte.
Chiaroscuri tracciati con cura e con forza, contrasti e sfumature in cui alla fine non facevo altro che annullare tempo e pensieri, diventare luce, ombra, colore, forme da snodare e reinventare ogni volta.
Grafite e spazi bianchi, vuoti di luce a lasciare aria, le mie mani erano vive.
Mani che devono saper essere vive, e suonare arabeschi con la punta dei polpastrelli.

e suonerei per te di notte sulle scogliere
illuminate da una luna blu
che ti illumina il corpo
che danza come vento d'inverno

Desiderio.
Desiderio per sentirsi vivi.
Alla fine non è cambiato poi molto.
Ed è un suono cupo e fondo che risuona nel petto. Sordo.
Vivere di desiderio e sentirsi spenti, sentirsi spegnere.
Ricordo. So. Sento.
Attesa.
Non mi accontento.
Desidero.
Desidero per sentirmi viva.

Oblio.
Dimenticare per lasciare spazio.
Fare vuoto, lasciare andare ciò che non appartiene più, ciò che era un tempo, senza condanne, senza rinneghi, solamente perchè ora non è più.
Se non si dimentica il nuovo non può sorgere. Non c'è spazio per tutto.
E ora è il momento di lasciare andare.
Ricostruirsi.

è stupido
ma chi si controlla
sta perdendo il suo tempo
e si culla sulle onde del mare

[Scisma, Div]

venerdì 18 luglio 2008

ponti fragili, sospesi in aria

Non siamo qui, non davvero. Ci forziamo ad essere per contrastare uno spaziotempo che cerca di estrometterci, un mondo che penetra per contatto senza chiedere permesso, portandoci fuori da sè. Fuori da noi.
Fratture e fragili suture che cercano di tenere legati così da non finire totalmente fuori asse, così che i pensieri e i sentire possano ancora fluire senza trovare ostacoli sul loro sentiero. Ma poi inciampiamo, di continuo, e mentre facciamo finta che non sia così e neghiamo la cosa non facciamo altro che rinsaldare quella distanza fredda e lontana che si è andata a creare.
Qualcosa non funziona più, si recitano copioni imparati un tempo a memoria e resuscitati in incerte reminescenze, giocando con dei noi che forse non esistono più. Almeno non più con quella forma, in quello stare. Non ci capiamo più, non ti capisco, non mi capisci, ci feriamo in un niente, suoni uditi ma non più intesi.
Kairos che ci reclamano e noi a far finta di niente, convinti che un giorno si decideranno a tornare per noi, ci faranno ancora visita. E mentre lascio scorrere via penso che voglio essere io a negarmi ad esso, a questo spaziotempo, io a creare e decidere i miei momenti opportuni.

-Non si tratta di pensieri. Perchè mai non capite? Dovreste piuttosto affrettarvi, se davvero volete trovare quanto cercate. Presto non vi sarà più spazio, presto sarà tutto completo, finito. [...] Mari, montagne, isole, continenti, ovunque vi è già qualcosa... All'inizio tutto era bianco e vuoto. Ora non ci sono più che pochi spazi liberi. Se volete, sceglietevene uno.
Cyril fissava il mappamondo roteante.
-E secondo lei che cosa avverrà quando ogni spazio vuoto sarà riempito? domandò.
Il vecchio fece nuovamente udire quel suo rumore ansimante e strano, poi rispose -Che cosa ne so? Si vedrà. Forse la fine del mondo. E' quello che spero.
Cyril fermò il mappamondo. Vi era ancora una minuscola macchia bianca. Vi pose sopra il dito.
-Qui, disse.

Mi rifiuto, mi ribello al tempo e alle sue gabbie, alle mie gabbie, alle mie paure, alle nostre paure, ai pregiudizi troppo stupidi per potersene fare fermare, così mortiferi, mentre l'istinto vitale è tutto ciò che bisogna seguire, che a saperlo ascoltare e sapersi ascoltare si è sempre al di là del bene e del male, fedeli a sè, vivi, aderenti a sè, e non serve altro, nient'altro da chiedere o volere.
Non mi voglio piegare alle nostre paure, non voglio sottomettermi al sentirmi inadeguata e fuori luogo, che ciò che fa bene è per sua natura buono, da accogliere senza condanne ipocrite, da seguire e da cui farsi condurre.

E quando non riesco ad abbattere i muri nei pensieri o con le parole, allora lo faccio col corpo, con ciò che posseggo di più istintuale, di più vivo, che le parole spesso portano con sè distanza, fioriscono malintesi. Ci sono troppi pensieri, troppi vissuti, nelle parole.
Ma in un colpo d'occhi, un sorriso, un abbraccio, siamo noi, noi che traspariamo, diventiamo trasparenti a noi stessi e a chi ci è caro nei nostri gesti.
E allora per primo cerco il terreno che più istintualmente ci unisce, quello dove possiamo toccarci per poterci incontrare di nuovo, al di là di ogni difficoltà.
E' un ponte tibetano sospeso sull'abisso, un'impalcatura fragile, ma solo un ponte è possibile ora, ponte che aiuta a toccare senza tuttavia avvicinare così tanto da far collassare nello schianto, ponte esile che mantiene la distanza ma è in grado di guardarla, sospeso in aria, per cominciare a traversarla.

-E' passato quel tempo...
Quale tempo? Quello iniziale, della sfiducia e della vergogna? Quando ancora estranei si indovinavano ma non si conoscevano e si sentivano a proprio agio soltanto a letto, e anche lì solo fino a un certo punto: lei si abbandonava con fuoco, con fame di tenerezza, lui la educava a poco a poco, con pazienza. Erano come in prova a quel tempo. [...] Malgrado la delicatezza e il conforto di cui godeva, magrado le costanti attenzioni e l'afffetto crescente, quell'inizio aveva muri e inferriate come una prigione. E questo non tanto a causa delle limitazioni imposte dalla prudenza o dalla discrezione: quei muri erano dentro di loro. [...] Erano come in prova a quel tempo, il tempo della semina, con muri e inferriate, un periodo difficile.
Quale tempo? Quello in cui i semi germogliarono e sbocciò il riso? Quando alla voluttà si era aggiunta la tenerezza.

Note, contatti, colori, in cui toccarsi.
Ti cerco per istinto vitale...

[M. Ende, J. Amado]

venerdì 11 luglio 2008

riTagli

Testa che risuona sorda, colpi fondi, cupi, senza eco.
Trattengo tutti i pensieri tra le pieghe sulla fronte, bloccati per non farli arrivare a occhi e labbra, tenuti dentro per farsi più male, colpirsi un po' più a fondo.

Lo sapevo. Sì, lo sapevo. Ignoravo la cosa. Facevo finta di nulla mentre mi parlavo da sola.
Non ho nome. Non ho sguardo nè voce. A volte so di essere solo un'idea.
Peraltro mia.

Non cerco risposte. Che so le cercherei nel luogo sbagliato, da chi non posso trovarle. E in fondo il problema resto io con i miei nodi irrisolti, nodi che mi diverto a stringere, gatto a nove code fatto di parole.

Chiudo, ho chiuso tutto, me per prima.
Le vergini s'impiccavano per suicidio, stringevano il collo con un laccio per chiudere il corpo, chiudersi al mondo, uscirne.
Moderna e più invisibile uccisione, i muscoli stessi diventano corda a chiudere i polmoni.
Non voglio sentire, mi chiudo al mondo, chiudo il mondo a me, lascio fuori l'aria e mi tolgo la capacità di respirare.
Chiudo, ho chiuso tutto, me per prima.

Mi rigiro su me stessa senza mai toccarmi, aria ferma, resto immobile fuori da me.
Parole inutili, giocate in tutta la loro forza per affondare, dritto alle vene, trovate con precisione, al primo colpo.

Farsa. Favola della buonanotte che mi racconto a volte perchè i sogni siano più leggeri e la smettano di rincorrermi ad ogni buio per inchiodarmi al muro, per tutte le volte che col sole non sono riuscita a farlo per bene.
Vivo altri presenti, se avessi scelto altra vita e non questa. Mondo distorto che prende vita e s'impossessa di me, del mio corpo.
Sono scene sfocate, corpi a collassare uno sull'altro, scontri in cui non sopravvive nessuno.
Violenza di contatti per riuscire finalmente a sentire qualcosa, bramare in quella violenza l'energia che hai usato per venirmi addosso.

Giudice, accusato e boia insieme, i chiodi penetrano bene a fondo.

Sentirsi usati, stracci usati, scampoli, ritagli a respirare polvere e pioggia inquinata.
Vivere di ritagli di tempo, comprati al mercato nel cesto degli scampoli. Ogni toppa un pensiero, per abiti da vendere al miglior offerente.
Ritaglio lacero.
Forse prima o poi riuscirò a volermi abbastanza bene da non esserlo.

domenica 6 luglio 2008

bianco terso

Contemplazioni estatiche che attraversano il corpo e lo fanno vibrare come corda pizzicata, cassa armonica che risuona lenta espandendo colori e profumi. Un sentire che non è di testa ma è un pulsare fondo, vitale.
I piedi si appoggiano sul terreno quasi potessero penetrarvi come radici, arrivare all'acqua nel sottosuolo tenuta fresca dalla terra e dissetarsi, nutrirsi di scuro e fertile. Con i polpastrelli toccare l'aria tiepida, sentirla palpabile mentre il vento nemmeno passa, giusto in alto leggero a muovere nuvole. Colori negli occhi, geometrie come arabeschi che continuano a mutare il mondo, sguardi in prospettiva, mutamenti a ogni passo. Gli aghi dei pini marittimi a ricoprire il suolo, tra campanule bianche e viola leggeri, una corteccia a scaglie dense che nella resina diventa dolceamara, miele cupo che non scivola via ma si trattiene adeso. Voci forti, accese, distanti da quel vous così formale a cui ero abituata, cortesia estrema che quasi annulla i contatti.
Mi ricarico nei cieli romani, leggeri e tersi, recupero quelle energie che i cieli grigi del nord europa mi avevano sottratto. Cornacchie scure scacciate dalle cicale che nel silenzio assolato del giorno danno un ritmo al tempo, incostante e irregolare, pensieri in moto a rincorrersi senza legami, giusto un fluire.

Reinventarsi di nuovo, da capo ancora, in altri spazi, con altri tempi.

Modi di essere, sensibilità in un qualche senso affini, mentre scelgo nel cesto le parole più adatte, quelle che si confanno a noi. Censurarsi a volte, scegliere di continuo le parole sbagliate per cercare di venire incontro ad un pensiero o ad uno stare che ti sono estranei. Sentirsi sbagliati in partenza mentre è questione di legami; e altrove, in altri chi, le parole sono fluide, scorrono senza ostacoli a frenarne il moto, toccano a fondo, loro, giuste, accolte senza giudizio, comprese, intuito vitale.

Nessun pudore. Cotone bianco che taglia in due pagine e vite.

Pagine bianche, sospensione in cui fermarsi un attimo, solo tu e il foglio vuoto. Respirare insieme alla carta e alle sue fibre, sentirne la consistenza, scegliere un punto in cui partire. E sono solo linee da snodare, senza fretta, senza vincoli, forme libere di prender vita.

martedì 1 luglio 2008

sentire casa

Ci sono più case. Più case dove stare e a cui tornare.
Senso di spaesamento alla rovescia, per cui sapere che è uno il posto da chiamare casa, ma sentire che così non è.
Famiglie sparse per il mondo.

Clichés come antichi o sempre moderni rituali per celebrare un vissuto comune e rifarlo presente. Come ce ne fosse bisogno....
Sentirsi, legami, sorrisi, incroci conosciuti o attraversati per caso.
Estraneità familiare, Familiarità estranea. Familiarità talvolta estrema.
Non ho bisogno di ricreare il passato per sentirci Presente. Sempre nuovi presenti, presenti che vanno e vengono, evolvono, siamo. Li portiamo con noi.
Non sono mai gli stessi luoghi, ma vi ci abituiamo e smettiamo di vedere come cambiano per rendercene conto solo a tratti, come schiudendo gli occhi di colpo, momento di lucidità improvviso nell'andare avanti quotidiano troppo spesso sempre uguale, in cui non ci accorgiamo nemmeno più di ciò che ci circonda, di chi abbiamo intorno.
Vivo più realtà allo stesso tempo e forse questo è ciò che mi permette di non darle per scontate. Sono io che devo farle vivere.
E i miei occhi così restano aperti.

Sera, un odore che invade il corpo e gli parla con accenti chiari, note di casa, aria umida dall'odore dolciastro. Pioggia che ristagna sospesa, assorbe su di sè l'erba col suo sole raccolto nel giorno che ne disfa la consistenza, l'asfalto che ancora restituisce calore, i muri delle case impregnati d'acqua che nel ridonarla vi lasciano impronte di terra e di pietra. Lontane, chiazze di luce e dragoni a scatenare le nuvole.
E intanto continua a toccare la pelle l'aria fredda sul Pont des Arts, a scivolare tra le assi di legno sopra la Senna che pulsa dal basso. Brilla dell'ultima luce l'oro de Les Invalides, la Tour Eiffel riflette l'aria col suo metallo povero che incide il cielo, i battelli passano e spostano l'acqua che tocca gli argini e fa brusio.

La città un po' ci appartiene ora. Me ne rendo conto perchè ho tempo da perdere, perchè me ne lascio cullare nella notte sotto i lampioni aranciati, perchè sono parole che scorrono senza fretta, raccontando nulla e tutto, in fondo noi.

Lasciarsi, salutarsi, ritrovarsi. Lasciare casa e tornare a casa.
Sentirsi a casa.