Non siamo qui, non davvero. Ci forziamo ad essere per contrastare uno spaziotempo che cerca di estrometterci, un mondo che penetra per contatto senza chiedere permesso, portandoci fuori da sè. Fuori da noi.
Fratture e fragili suture che cercano di tenere legati così da non finire totalmente fuori asse, così che i pensieri e i sentire possano ancora fluire senza trovare ostacoli sul loro sentiero. Ma poi inciampiamo, di continuo, e mentre facciamo finta che non sia così e neghiamo la cosa non facciamo altro che rinsaldare quella distanza fredda e lontana che si è andata a creare.
Qualcosa non funziona più, si recitano copioni imparati un tempo a memoria e resuscitati in incerte reminescenze, giocando con dei noi che forse non esistono più. Almeno non più con quella forma, in quello stare. Non ci capiamo più, non ti capisco, non mi capisci, ci feriamo in un niente, suoni uditi ma non più intesi.
Kairos che ci reclamano e noi a far finta di niente, convinti che un giorno si decideranno a tornare per noi, ci faranno ancora visita. E mentre lascio scorrere via penso che voglio essere io a negarmi ad esso, a questo spaziotempo, io a creare e decidere i miei momenti opportuni.
Mi rifiuto, mi ribello al tempo e alle sue gabbie, alle mie gabbie, alle mie paure, alle nostre paure, ai pregiudizi troppo stupidi per potersene fare fermare, così mortiferi, mentre l'istinto vitale è tutto ciò che bisogna seguire, che a saperlo ascoltare e sapersi ascoltare si è sempre al di là del bene e del male, fedeli a sè, vivi, aderenti a sè, e non serve altro, nient'altro da chiedere o volere.
Non mi voglio piegare alle nostre paure, non voglio sottomettermi al sentirmi inadeguata e fuori luogo, che ciò che fa bene è per sua natura buono, da accogliere senza condanne ipocrite, da seguire e da cui farsi condurre.
E quando non riesco ad abbattere i muri nei pensieri o con le parole, allora lo faccio col corpo, con ciò che posseggo di più istintuale, di più vivo, che le parole spesso portano con sè distanza, fioriscono malintesi. Ci sono troppi pensieri, troppi vissuti, nelle parole.
Ma in un colpo d'occhi, un sorriso, un abbraccio, siamo noi, noi che traspariamo, diventiamo trasparenti a noi stessi e a chi ci è caro nei nostri gesti.
E allora per primo cerco il terreno che più istintualmente ci unisce, quello dove possiamo toccarci per poterci incontrare di nuovo, al di là di ogni difficoltà.
E' un ponte tibetano sospeso sull'abisso, un'impalcatura fragile, ma solo un ponte è possibile ora, ponte che aiuta a toccare senza tuttavia avvicinare così tanto da far collassare nello schianto, ponte esile che mantiene la distanza ma è in grado di guardarla, sospeso in aria, per cominciare a traversarla.
Note, contatti, colori, in cui toccarsi.
Ti cerco per istinto vitale...
Nessun commento:
Posta un commento