domenica 30 marzo 2008

credi di porcellana

Carta e bisogno di realtà. Che cose e pensieri assumano concretezza. Voglio dita a emanare calore, occhi a brillare in sguardi di luce che riflettano l'aria circostante, portata nuova dal vento leggero.

Spostarmi è sempre più faticoso, ogni volta serve più tempo per recuperare stabilità. Valigia riempita di immagini e desideri impronunciabili, assecondati solo in una vaga e improbabile possibilità di realtà. Non per me ho scelto stoffe e colori, il tatto ha guidato la mia scelta, un certo fremito che mi piace voler immaginare. Pensieri vaganti senza ordine, macchie colorate che s'intersecano e sovrappongono in zone franche in cui sospendersi dal mondo, fantasie, sogni distanti relegati in terre d'irrealtà.

"No, no" si disse Edward. "Non crederci. Non permettere a te stesso di crederci".
Troppo tardi.
Qualcuno verrà anche per te.
Il cuore del coniglio di porcellana aveva cominciato -di nuovo-
ad aprirsi.

[Kate DiCamillo]

Storie che colpiscono dritte al cuore, parole che vanno a scomparire davanti agli occhi, segni neri sulla carta che lasciano spazio alle immagini a cui le parole riescono a dare vita. Condotta con cura, con una dolcezza vigile e lieve, fino a commuovermi e sentire le lacrime scendere calde sulle guance, arrivare alle labbra e bere sale.
Desiderio di dolcezza che cresce, si fa strada, nucleo che assume l'immagine di una galassia, di una nebulosa vista da lontana nello spazio vuoto, stelle a splendere distanti.
Ma sento anche i vostri respiri in me, mi sostengono e scaldano anche se non bastano a colmare.

Va' via vuoto, lascia spazio a colori e respiri e abbracci.
Lascia spazio a me, e lasciami sognare.

venerdì 21 marzo 2008

canti di sirena

Sussurri come canto di sirena, mi attraggono in spirali di vento che avvolgono il corpo per portarlo con sè, melodie a cui è dolce lasciarsi andare.
Cerco di legarmi all'albero maestro con corde fatte di pensieri scuri, ma da sola i nodi vengon male, le mani non riescono a stringere legacci così saldi per tenermi lontana, e nel vento riprendo il volo.
Le corde si allentano, graffiano ruvide sul corpo e scivolano a terra,
mare scuro, nero a inghiottire luci e colori.
Lancio pensieri tra le onde, immobile, gli occhi fissi in quelle increspature livide. Dentro me mi sono già tuffata.

Nuvole scure. Compari a scaldare, Sole?

mercoledì 19 marzo 2008

foto-ricordo allo specchio

..parole passate, rinascono, scivolano tra le labbra..

ameresti il mio viso
al buio in uno specchio
riflesso
mentre fingo un simulacro di te

..guardami..

domenica 16 marzo 2008

...speriamo mangi marzapane!

C'era una volta il lupo e i sette capretti, che finiva col lupo annegato nel fiume con le pietre nella pancia al posto dei teneri caprettini. Ma se il lupo avesse avuto anche lui dei lupetti? Allora loro sarebbero rimasti soli, senza papà. Come se la sarebbero potuta cavare?

C'era una volta una capra che aveva sette capretti. Nonostante le premure perchè non cadessero nelle trappole del lupo, i caprettini avevano scambiato le sue zampe sporcate di farina per quelle della madre e gli avevano aperto la porta di casa: lui ne mangiò sei. Il più piccino, quando la madre rientrò, le raccontò cosa fosse successo e la capra andò allora alla ricerca del lupo. Lo trovò, addormentato per la scorpacciata, e gli aprì la pancia per far uscire i figlioletti. Poi la ricucì, mettendovi dietro delle pietre pesanti e quando il lupo si svegliò e andò a bere al fiume, sporgendosi troppo cadde in acqua e affogò.
Tuttavia...

Anche il lupo era padre, e a casa lo attendevano i suoi sette lupetti, piccoli, ancora troppo giovani per cacciare e procurarsi il cibo. La capra allora, decise di prenderli con sè, e li allevò insieme ai suoi sette capretti. A tutti quanti dava tenera erbetta, e i cuccioli crebbero insieme come fratelli. Giocavano a rincorrersi intorno alla casa, e i lupetti impararono a riconoscere l'erba più verde, senza che mai venisse loro il pensiero di voler cacciare un altro animale.
Passò il tempo, i cuccioli divennero più grandi, e il vecchio zio lupo decise di andare a trovare i sette nipotini per vedere come se la cavavano senza il padre. Non sospettava che i lupetti fossero stati allevati da mamma capra, e mai avrebbe immaginato di trovarli a giocare con dei teneri e succulenti capretti. Quando arrivò e li vide rincorrersi nella radura con aria ridente, andò su tutte le furie e ululando fece fuggire i capretti e costrinse i piccoli lupi a ritornare nella casa del padre. "Ma cosa pensate, -disse loro- di poter giocare con quegli animali così deboli? Voi dovete cacciarli, e ucciderli, e mangiarli! Non potete giocare con loro!". "Ma sono nostri amici", gli risposero i capretti. E lo zio lupo "Vi proibisco di giocare con loro. Voi siete lupi, e i lupi cacciano i capretti. D'ora in poi resterò con voi, per vedere se vi comporterete come gli animali che siete. Non me ne andrò finchè non vi vedrò dar loro la caccia".
I lupetti erano disperati, non sapevano cosa fare e mai avrebbero potuto cacciare i loro amici capretti. E come fare poi a dire allo zio che loro non mangiavano carne, e che l'erbetta che cresceva lungo il fiume, vicino alle pietre bianche, era così dolce e tenera. Tristi e sconsolati non sapevano come risolvere la situazione, quando a un tratto un lupetto disse "Fratellini miei, mi è venuta un'idea. Facciamo così, andiamo nella città e chiediamo al pasticcere di fare per noi dei capretti di marzapane, grandi quanto i nostri fratelli capretti. Poi li nasconderemo nel bosco e quando lo zio ci chiederà di cacciarli noi ci butteremo su quelli di marzapane, così lui crederà che ci comportiamo da veri lupi e ci lascerà vivere in pace".
Così fecero, e quando i capretti di marzapane furono pronti li nascosero nel fitto della foresta. Poi andarono dallo zio lupo e gli dissero "Zio, avevi ragione, noi siamo lupi e dobbiamo cacciare. Oggi te lo faremo vedere, andremo tutti insieme nel bosco e cacceremo i capretti". Andarono, e quando furono lì iniziarono a correre tra gli alberi gridando "Eccoli lì, eccoli! Non ci scapperanno! Ecco, l'ho preso!". Si gettarono sulle statuine di marzapane e le mangiarono tutte, fino a riempirsi la pancia, e poi tornarono dallo zio. Lo zio lupo li guardò con soddisfazione, sorrise loro e gli disse "Mi ero sbagliato su di voi. Voi siete veri lupi. Non avete bisogno di me, posso andarmene sapendo che crescerete bene". E i lupetti "Sì zio lupo, siamo cresciuti, grazie per essere stato con noi e per averci spiegato come si deve comportare un lupo. Ti promettiamo che continueremo a comportarci bene. Tu va via tranquillo, non ti preoccupare".
Appena lo zio lupo ebbe lasciato il bosco i lupetti si guardarono e sorrisero, poi si misero a correre e tornarono dai loro fratellini capretti, a giocare a rincorrersi sulla riva del fiume, cercando l'erba più tenera intorno alla grande pietra bianca.

Ecco cosa succede a sentir raccontate troppe fiabe. Poi viene da inventarne di nuove, ma le fiabe sono così. Vivono perchè vengono raccontate e perchè vengono tinte dei colori di chi se ne impossessa.
Inventata assieme a mia madre in pomeriggi credo invernali, mi ricordo il forno acceso e le torte a cuocervi dentro.

morale: non tutti i lupi sono cattivi, quindi non rispondere "crepi" quando ti dicono in bocca al lupo. Magari era un lupetto della mia storia, ed era solo in cerca di marzapane...

venerdì 14 marzo 2008

luci fioche

Sopravvissuta al viaggio.

Partire, andar via, sradicarsi. Non sai neanche tu perchè, non è la prima volta che ti metti in viaggio, ora è solo un po' più lungo, ma è come se ti stessi privando di ogni punto di riferimento. O forse ti sembra di averli già persi.
Continui ad aggiungere chilometri, aumenti lo spazio che in realtà sai che non ti sta separando da nulla. Sai che non vorresti andare, non vuoi partire, dove sei è l'ultimo posto al mondo dove vorresti trovarti. Ma non è che ne preferiresti un altro. Semplicemente non vorresti essere da nessuna parte.
Le mani sporche di nero, il viso ormai lavato, senza più ombra di trucco. E tuttavia continui il viaggio, accettando scelte che non vuoi più.
Attesa, e ti accorgi di stare tremando, estraniata anche da te, brividi freddi. Seduta sulla valigia guardi avanti, non guardi niente, perdi il confine tra le cose. T'immagini accuciata a terra, tra le mani cocci di te cullati in una nenia triste.
Ambienti asettici, aria finta, nonluoghi in cui non essere, in cui lasciarsi scivolare, abbandonando un po' di sé lungo la strada.

Finalmente il vento sul viso, realizzi che non riesci più a piangere. Non hai più lacrime, finite, e insieme a loro hai estromesso da te anche note, colori, affetti. Svuotata, non senti più nulla.
E di nuovo è Parigi, ma sembra un'altra città. Camminare per strade che ormai sono familiari, sai dove sei, ti sai muovere con scioltezza ormai. Ma tu non stai vivendo, e ti scorre intorno inerte. Nessun battito, nessun respiro caldo dentro di me, nessun pensiero, nè bello nè brutto. Potresti quasi chiederti se esisti davvero...
Riesci a ricordarti come si fa un sorriso solo nell'abbraccio di una persona cara o nella voce di un'amica che canta musiche del suo paese con la pioggia dietro a scivolare sul vetro.

Luci fioche, ti guardi riflessa in uno specchio in cui vedi immagini che non vuoi ricordare, non ora. Le mani si fermano, in una sospensione rigida in cui non riesci a respirare. Piangi ancora, sola.

martedì 11 marzo 2008

gelsomini di carta

Piovono gelsomini, tracciati in bianco su fogli scuri
continuano a cadere mentre gli occhi si chiudono a piangere.

Tanti tipi di lacrime, malinconia, assenza, talvolta dolcezza anche.
Lascio che i pensieri scorrano via, mi cullo in questo dolore leggero
spento.
Senso di solitudine che cerco di lavar via.


I sorrisi torneranno, tornano sempre.


Nel frattempo un regalo per Voi,
mentre mi allontano per lasciarvi spazio.
Aria e luce per respirare
e un gelsomino adagiato tra le ali di un aeroplano di carta.

giovedì 6 marzo 2008

pietre fresche, gusci scuri e polpa bianca

Tempo, passi veloce.

Cielo grigio, geografie familiari ripescate dai ricordi di secoli fa, estati passate su un mare che ora è color delle nubi e assorbe il cielo nel suo limite estremo. Insenature, rientranze in pietra e roccia, diritte a entrare nel mare, quell'acqua, quasi dimenticata eppure inconfondibile, i pini ovunque a riportarmi indietro nel tempo.

Accucciata sulla terra scura e morbida, gli alberi a riparare dal sole troppo intenso, odore di resina e davanti un sasso grande, chiaro, io sono più piccola. Con gli occhi ne seguo la superficie irregolare eppure liscia, instabile nella sua andatura fatta di saliscendi, cercando un'ansa, un incavo per quell'occupazione delle prime e calde ore del pomeriggio, mentre i grandi dormono e non ci sono rumori, solo quiete.
I rimasugli delle pigne e un mucchio di pinoli a fianco, un sasso troppo grande in mano. Gioco che dura ore intere, tra divertimento e paura per quel suono così secco mentre uso tutta la mia forza per rompere i gusci scuri. Sbatto a caso guardando altrove come se così potessi non sentirne il rumore mentre il piccolo frutto viene sbalzato lontano, irritrovabile tra gli aghi dei pini marittimi. Solo a volte la polpa bianca si sparge sulla pietra fresca d'ombra e riesco a recuperarla tra i frammenti di guscio. La porto alla bocca in rimasugli infinitesimi, talmente poca da lasciar solo una traccia dal sapore dolce, un profumo di legno.
Guardo il mucchietto a terra, ne scelgo uno un po' più grande, sperando che me ne regali un po' di più. Il nero mi sporca le dita e già che ci sono ne approfitto per dipingermi un po' addosso. Finito, ritorno ai pinoli. Chiudo forte gli occhi e picchio il sasso. Intorno, solo il bosco.

mercoledì 5 marzo 2008

looking for Kensington Gardens fairies

Senza sogni non si vive. Sono ciò che ti dà la direzione. Il tema delle elementari "cosa vuoi fare da grande" chiedeva di pensare al tuo sogno, a quello che vuoi e desideri fare, non di lasciare un foglio in bianco da spedire come curriculum per accontentarsi dell'offerta meno peggio.

Dura da sentirselo dire. Ancora più difficile sentendo di condividere ogni singola parola fino all'ultima briciola di me. Tragica quando al contempo ti rendi conto di non avere sogni. O forse sei tu a non permetterti di averne.

Mancano gli ultimi esami, a breve inizierà il periodo tesi, impegnativo ma bello, riesco a stringere i denti per questo sforzo finale solo sapendo che a breve potrò dedicare ogni energia ad un lavoro mio. Sì, è vero, l'università è quel che è, la tesi ormai nulla più che un elaborato scritto di un centinaio di pagine, non viene richiesto poi molto. Ma in un atto di megalomania imperante pensi alla Nascita della tragedia, al fatto che sia nata come tesi di laurea. Pensi a quanto siamo scaduti in basso per cultura e voglia di fare, e allora, nonostante tempi che vorrebbero pressarti e richieste al lavoro minimo indispensabile decidi di fregartene, e vuoi la Tua Tesi. Tesi nel suo significato primo di ipotesi, di idea, da smembrare in ogni singola parte per riuscire a sostenerla, per portare avanti un pensiero che è in qualche modo scaturito da te e vuoi comprendere fino in fondo. Sarà un bel periodo, la mia tesi l'ho trovata..!

E almeno il sogno a breve termine c'è, meglio di niente insomma. Ma poi?
Tragico, mentre mi rendo conto che resto in silenzio perchè non ho il coraggio di dare la risposta vera, e ammettere che forse mi conoscete troppo bene, sapete come funziono.

Forse sei tu a non permetterti di sognare

Già... forse... Ma per sognare bisogna anche vedersi all'altezza del sogno, in grado di corrispondervi. Riuscire a riconoscersi un brillio speciale in qualcosa, lì, sepolto in te, magari anche sotto cumuli di pensieri falsi o indolenti o distruttivi, ma in fondo ancora splendente seppur rivestito dalla cenere.
Forse non voglio sognare per paura di non trovare nulla...


Passeggiata a piedi scalzi sull'erba dei giardini di Kensington, guidata dalle risate leggere e ironiche verso l'isola al centro del fiume. Non sto scappando, nè voglio restare con loro. Solo una piccola pausa, qualche volo e tramonto sul Serpentine, a fare scorta di luce dorata da riportare nel mondo reale.

Poi ritorno, prometto.



martedì 4 marzo 2008

gocce d'acqua

Piove, un aquilone impigliato tra i rami a diventar carta straccia. Le gocce lo attraversano, lo perforano, lasciandone brandelli colorati trafitti sulle punte dei rami.

Acqua calda sulla pelle, risale in nuvole lente che avvolgono in spirali morbide, gocce sospese ad annullare il mondo. Mani che scivolano sul corpo a trattenere l'acqua e carezzare sciolte, occhi socchiusi e testa inclinata perchè il calore avvolga il collo, attorni la schiena in un abbraccio, molteplici baci ad appoggiarsi senza tempo.
Tremi, ti accorgi di trattenere sussulti,
mentre l'acqua scorre e porta via.
Occhi lucidi e appannati. E' il calore, che credevi?
Sento sulla pelle le ultime note, me ne colmo sapendo che a breve scivoleranno via, non riuscirò più a ricostruirle, impalpabili, trattenute a stento nelle anse del corpo.
Mi congedo a forza, ricostruendomi un'ultima volta
prima di restare nuovamente nuda.

Costruirsi, ricostruirsi, lavoro senza fine che portiamo avanti con noi, su di noi, giocando coi nostri frammenti. Crepe e terra arida, mentre mi scopro ancora fragile. La pioggia non vuol penetrare e scorre via, riapro all'aria ferite antiche per prosciugarmi e non pensare.

lunedì 3 marzo 2008

essere facile

Aria scaldata dal sole e vento caldo che arriva sulla pelle come carezza a tirar via i residui d'inverno. In controluce i rami degli alberi si colorano secondo tonalità nuove, rivestiti dalle gemme che sotto la luce del sole iniziano a brillare dei loro colori ancora appena accennati, rivestiti da un lanuginio tenero che scorre lieve tra le dita. Sole alto, cielo azzurro che attraverso le lenti viola degli occhiali diventa ancor più terso, ricordando i viaggi estivi nel sud italia, coi suoi contrasti avidi di terre bruciate, distese blu e fiori che rubano stille d'acqua per strappare un giorno in più mentre le radici si diramano in un suolo arido, quasi pietra. Erba di verde tenero, accoglie margherite che puntano fieramente in alto, distese a raccogliere luce e aria, mentre intorno continua il cielo tra nuvole azzurre che rivestono il suolo, migliaia di nontiscordardimé, fiori fragili, che solo a toccarli smarriscono i petali mentre tra le dita resta solo il gambo leggero. E poi soffioni, già in parte volati nell'aria, corolle bianche che fanno volare il prato. Passa il giorno, va a calare, e l'aria attenua i colori in una foschia leggera che fa scivolare lenta un tono nell'altro, attraversando le chiome degli alberi che ancora spoglie si stagliano come silhouette nere ad arabescare il cielo. Per terra sono viole, colore intenso, mentre le mani percorrono una corteccia antica, ruvida e tiepida, respiro vitale di un ippocastano che a breve inizierà a mostrare grappoli bianchi.

Imperfetta, banale, via di mezzo che non può scomparire nell'anonimato totale come nemmeno distaccarsene per emergere e spiccare un salto verso l'alto. Eterna insoddisfatta,
destino dei perfezionisti che non sanno perdonarsi
di non essere il meglio possibile e immaginabile.
Lotta continua per riuscire ad accettarsi, a riuscirsi a dire che sì, dai, in fondo puoi andare, nessuno ti chiede di essere perfetto,
basta che sia tu, per come sei, per il vissuto unico
che solo tu in quanto tu puoi portare con te.
Ma sono ragioni che non valgono, e mollano presto la presa.

Vorrei riuscire ad accontentarmi, tanto non è richiesto di più.
Anzi, a cercare il massimo si rischia di creare terra bruciata.
Meglio allora lasciar andare, lasciar correre, senza preoccuparsi.
Convincermi che non m'importa, che non è essenziale.
Scivolare leggera, sonno senza sogni, mondo facile senza pretese.

sabato 1 marzo 2008

col coltello alla gola

Succede. Capita senza che ti possa render conto di come sia nato, quale sia stata la sua alchimia.
Ragione, non funzioni qui. Per quanto ti possa sforzare di scomporre le persone in formule e legami, ancora qualcosa ti sfuggirà. Non è chimica, ma quell'alchimia che tramuta acqua limpida in oro puro. Non sai perchè, non te lo spieghi. Persona che in fondo non è così dissimile da tante altre, eppure... eppure... Eppure d'improvviso scorgi un brillio in penombra, comparso di sfuggita mentre la luce del giorno va a calare e colpisce le cose di taglio mentre i colori diventano caldi e l'aria si tinge di rosa. E' stata cosa di un momento, potresti quasi credere in un inganno degli occhi, un vetro in lontananza che ha prodotto un riflesso di luce. E allora socchiudi gli occhi, filtrando aria e luce tra le ciglia, aumentando i contrasti, mentre il pulviscolo sospeso in aria assume consistenza e sgrana le cose. Il sole è già calato, rimane solo il bagliore diffuso che investe le cose mentre le ombre vanno ad allungarsi. Eppure, in quella percezione che vuole farsi più acuta dividendo luci e ombre come fosse possibile scomporle, continui a notare quel bagliore che prima ti aveva fatto voltare di scatto il viso, subito riassorbito. Ti accorgi che ha lasciato traccia di sè, un certo chiarore diffuso che continua a spandersi. Apri gli occhi e già va a scomparire, troppo lieve, quasi impercettibile per riuscire a non essere riassorbito nella complessità delle cose. Allora riprovi, di nuovo gli occhi a fessura.. Ed è ancora lì, mentre sorridi, per quel regalo inatteso.

il voler bene non si compra, non si vende, non si impone col coltello alla gola, nè si può evitare: il voler bene succede.

[Amado]

Capita. Non sai cosa l'abbia provocato, puoi solo vederne alcune cause, le più macroscopiche. Ma quello che siamo resta invisibile per comparire nei dettagli inconsapevoli mentre emerge senza coscienza e ci afferra.
Emozionarsi, affezionarsi, sperimentare forme d'amore senza preavviso alcuno. E' un cenno, un sorriso d'occhi, un'inflessione di voce, il timbro di un suono, una parola intesa proprio perchè non pronunciata.
Qualcosa si fa avanti, fa breccia ed entra senza preavviso, brezza leggera di vento che senza sforzo alcuno s'insinua nei varchi tra le pietre, giungendo al centro senza perdere il calore che portava con sè. E riesci solo a prenderne atto, accorgerti di esserne stato toccato, profondamente.
Voler bene capita, succede. Lo riconosci subito, immediato. Lo sai e basta, non è qualcosa da capire o su cui stare a riflettere. Semplicemente inizia ad essere e poi ti rendi conto che si è ritagliato uno spazio in te dove vivere e respirare.
Chiudi gli occhi, ne senti i respiri lunghi e lenti, calore che risale e colma.

Abbandono ogni riserva, ogni barriera perchè ogni parte di me sia esposta al vento, lì ad essere toccata e lambita.
Ma a volte l'aria è impura. Porta con sè polvere di sabbia e ferro, stridore e gemiti mentre cerca un varco.

Non trovo il coraggio di togliermi di dosso sguardi e sorrisi
un odore che ancora mi permea, penetrato sotto pelle.
Parole che continuano a percorrermi
senza pausa, senza tregua.