domenica 14 settembre 2008

riposarsi di sè

E per una volta cerco di fare le cose per bene...
Anche col disegno era così, iniziavo dai dettagli, curati nei singoli particolari, nelle sfumature, nei minimi tratti. Ma poi si perdevano nel vuoto intorno e senza uno sfondo in cui immergersi rimanevano simboli, tratti iconici senza senso, terribilmente studiati e freddi.
E allora oggi cerco di far fluire le parole libere, senza cercare di costringerle fin dall'inizio in cornici dorate, sperando che possano prendere vita scordandosi di voler essere belle.
E l'inchiostro slavato stinge i pensieri, come non fossero importanti.

Aria fredda e luce di pioggia finita, odore di terra bagnata che mi riporta a te, una stanza scurita dalle imposte chiuse e dalle nuvole colme, giorno ancora in sospeso mentre ti guardo per non svegliarti, ti sento respirare e ti sfioro per memorizzarti attraverso la pelle.
Fusa contro le piante dei piedi per raccogliere calore durante la notte, senza avvicinarmi per non svegliarti. Contatti minimi, giusto per sentire che sei vicino, aria e buio per consegnare ciascuno ai propri sogni.
Noi ci ritroveremo al mattino.

Non riesco a trovare parole, i pensieri non vogliono seguirmi.
E mi viene da pensare alle istantanee rimaste non dette.
I Cedri del Libano sono rimasti muti, racchiusi tra i mattoni rossi slavati da acqua e sole, quei tronchi e quei rami diventati lucenti pioggia, calore saldo che affonda al suolo, liscio nel poggiarsi alla pelle.
E ci siamo noi bambini che li sfidiamo ad ogni giorno d'estate, per fare pochi centimetri in più cercando appigli sui rami più leggeri. E ora uno scuarcio lo ferisce in tagli amari, una neve troppo pesante di un ventinove febbraio, dolore triste dalla linfa alle vene.
Ma nonostante tutto è vita piena, rami così antichi da aver oltrepassato i cancelli di ferro per tendersi oltre la strada e tagliarla dall'alto da parte a parte. Un bambino biondo ride a cavalcioni mentre una mano adulta dietro alla schiena è in attesa vigile per insegnargli cosa sia l'equilibrio.
E poi i campi selvatici dentro la città, racchiusi dalla cinta muraria, rampicanti e cespugli selvatici che ricoprono le rare case, odore dolce di uva fragola che macchia di scuro i muri inondati dal sole.
Una luce che in questa città non sa mai essere limpida e pura, e sempre un velo d'acqua passa in mezzo tra te e il mondo, sogno perpetuo che non se ne va nè sa di esistere.

In viaggio.
I paesaggi scorrono, il vento secca gli occhi che di rimando cedono lacrime, gocce nere che si disfano di continuo e restano in tracce scure sul fianco delle dita.
Perline di vetro nero ricamate su stoffa gialla, mani tenute occupate per tenere al laccio i pensieri, l'ago li trapassa e li cuce alla stoffa, cuciti stretti perchè non fuggano fuori controllo.
E il cuore pulsa forte.

Ricordo, io mi ricordo.
Quando prendevo la bici per venire da te.
Non erano nemmeno cinque minuti, non importava neanche che fossero passati giorni oppure ore.
Persone care che ti aumentano i battiti in ritmi asincroni, felicità perennemente acerba fatta di gesti mai conclusi.

Guardarsi negli occhi per sorridere.
Tu, che mi sei caro, tu che in fondo resti altro da me, mai interamente noto, tu altra vita e altra via.
Tu che sembra riesca a vedermi per ciò che sono, che mi guardi con affetto nonostante i difetti con cui ti sommergo ogni giorno, tutte le paure e le insicurezze che porto con me come catena pesante con cui so legarmi stretta.
E per qualche motivo che non capisco sei ancora lì, ad esserci e prestare attenzione, perchè per un tempo che non ci è dato sapere possiamo lasciare i notri passi a spiegarsi vicini, per ascoltarci in silenzio, toccarci in uno sguardo.

Persone che ti sentono per quel che sei, in quelle sfumature che sembrerebbero non poter condividere lo stesso corpo.
Tocchi dolci che vanno e vengono, parentesi tra schianti d'acqua infranti sulla pelle che lasciano segni come ustioni a tener memoria di sè.
Furia e dolcezza per contrappunti sincopatici in cui solo il desiderio ha diritto d'esistenza, mio o tuo non fa differenza.

Da sola mi faccio male, inizio a colpirmi nei punti deboli, affossarmi in colpi sordi per uccidere la capacità di guardarmi senza rancore.
E se faccio così è perchè mi dico che prima o poi anche tu riuscirai a vedermi come io mi vedo. E allora comincio fin d'ora a impugnare arnesi di tortura per punirmi di quel che sono.

Eppure scaccio i demoni, o almeno fingo di ignorarli.
Occhi chiusi e schiena inarcata ad accogliere carezze lente
vado in cerca delle tracce che mi hai lasciato addosso.
Segni tracciati a fondo, incisi dentro, mi fanno bene.
Sento per un attimo di potermi placare nel tuo abbraccio
e in quel momento, in te, mi riposo di me.